Concilio sulla Spiritualità Laica - Emilia Romagna 28 settembre 2013

CONCILIO SULLA SPIRITUALITA’ LAICA
MONTEORSELLO DI GUIGLIA (MO) 28 SETTEMBRE 2013

La danza dello Spirito - Dipinto di Franco Farina

“Concilio” è una parola che immediatamente evoca un che di religioso, altrettanto lascia intendere il termine “spiritualità”, almeno come essa viene intesa nelle religioni monoteiste; la parola “laica” che conclude il titolo potrebbe anch’essa sottintendere la descrizione di una appartenenza ad una religione non in senso sacerdotale. In verità tutte e tre queste parole hanno un significato di tutt’altro genere e qui vediamo il perché.

“Concilio” si definisce un incontro in cui operare sinergicamente per conciliare diverse posizioni di pensiero, integrandole in un contesto sincretico.

La spiritualità non appartiene ad alcuna religione; essa è la vera natura dell’uomo. Lo spirito è presente in tutto ciò che esiste, non può quindi essere raggiunto attraverso uno specifico sentiero, poiché esso è già lì anche nel tentativo di perseguirlo. In verità lo spirito può essere definito una sintesi di intelligenza/coscienza, ove “intelligenza” sta per capacità di comprensione e “coscienza” sta per attenta consapevolezza.

La laicità è la condizione di assoluta “libertà” da ogni forma pensiero costituita, sia essa ideologica o religiosa. “Laikos”, in greco, sta a significare colui che è al di fuori di ogni contesto sociale e religioso, ovvero non appartiene ad alcun ordinamento sociale o confessionale.

Anche in termini taoisti questa condizione viene indicata per il cosiddetto “santo”, nel senso di "integro" (da non confondersi con i santi nominati dalle chiese monoteiste)).

Quando si parla di ricerca spirituale non si intende il perseguire un sentiero codificato, una normativa fideistica, un’appartenenza ad un credo; il cercatore spirituale è semplicemente colui che guarda sé stesso, colui che riconosce il Tutto in sé stesso e sé stesso come il Tutto.

Da questo punto di vista la ricerca spirituale può essere considerata un fatto strettamente personale, quindi il vero cercatore spirituale è assolutamente laico, allo stesso tempo riconosce ciò che è in lui come presente in ogni altra cosa. Conciliare la propria via personale con quella di chiunque altro significa saper fluire senza ostruire, apprendere e trasmettere senza pretendere, insomma si tratta di fare la pace con noi stessi e con gli altri.

Questa assoluta libertà comprende anche assoluto amore e rispetto, non essendoci assunzioni di posizioni precostituite e riferimenti assolutistici ad uno specifico sentiero. L’unico punto solido che il cercatore riconosce come valido è il rapporto personale che egli instaura singolarmente con il suo Maestro (o i suoi Maestri), trattandosi quindi di un rapporto diretto ed univoco egli non pretende che questo processo abbia una valenza assoluta.

In realtà lo stesso Maestro non è altro che lo spirito nella sua genuina manifestazione di perfezione, l’intimo Sé del cercatore stesso.Questa premessa per indicare la forma di collegialità che si vorrebbe raggiungere durante questo “Concilio della Spiritualità Laica” che si vuole realizzare a Monteorsello. Sarà un mini “Kumb-Mela” laico, in cui gli sperimentatori del Sé si incontrano per scambiarsi emozioni, esperienze, poesie, canti, musica, danze sacre, pratiche, cibo ed empatia simbiotica. 


L’incontro si svolge il sabato 28 settembre 2013 a Monteorsello di Guiglia in Emilia Romagna, in un luogo  vicino alla natura che evoca l’immagine di un caravanserraglio in cui i cercatori nomadi si incontrano.  

Durerà l’intera giornata, dalla mattina alla sera, con interventi a rotazione collegiali in cui ognuno partecipa al tutto. I partecipanti sono invitati a portare cibo e bevande vegetariane da condividere, unitamente alle proprie stoviglie (come si usa tra i sadhu ed i monaci viaggiatori). La condivisione inizia alle ore 10 del mattino e prosegue ininterrottamente sino alle ore 22, con possibile estensione anche all'indomani mattina che è domenica (29 settembre),  con una escursione erboristica nei dintorni. 

Per facilitare lo svolgimento del concilio è richiesto l’aiuto di alcuni volontari disposti a collaborare attivamente (e gratuitamente). Durante l’incontro non sono previsti smerci o scambi di denaro, tutto è all’insegna della comunione gratuita. Sarà consentita l’esposizione di libri o materiale di carattere informativo e divulgativo, di riscontro alle proprie esperienze.

Infine girerà un cestino per la raccolta delle offerte libere a copertura delle spese organizzative sostenute e del luogo che ci ospita.

Per contatti e informazioni generali: Paolo D’Arpini

circolovegetariano@gmail.com 







Integrazione di Jalsha: 

Caro Paolo. La serata trascorsa assieme il 28 giugno u.s. mi ha portato delle idee... volevo proporti un sottotitolo al nostro Concilio e poi un focus che si potrebbe adottare per l'incontro. Dato che il solo titolo " Concilio sulla Spiritualità Laica" credo non esprima a sufficienza di cosa si tratta, proporrei questo sottotitolo "Incontro tra liberi ricercatori e sperimentatori del sé, per uno scambio di esperienze, canti, meditazioni, cibo, emozioni, poesia. Il tutto seguendo la via facile dell'umana empatia.... (ovviamente modificabile a piacimento). Poi nel mettere a fuoco l'incontro e le sue modalità pensavo che si potrebbero sviluppare i temi da trattare ponendo al centro "gli strumenti del viandante" o del "viaggiatore spirituale". Paragonare gli strumenti cari al ricercatore a quelli del viandante in cammino. Riconoscere, cioè, e valorizzare quelli che sono i nostri personali punti- forza, le bussole che ci orientano. Così come un viandante porta con sé poche cose essenziali, anche noi ricercatori siamo dotati di strumenti che si potrebbero individuare in precisi oggetti anche simbolici da portare all'incontro. (un testo, arti divinatorie, uno strumento musicale, un talismano, ecc. ecc. ).    Ora, caramente ti saluto.... “

La differenza sostanziale tra il ben-avere e il ben-essere

Collage di Vincenzo Toccaceli


Bisogna risalire alla seconda metà del ‘700 per trovare le origini del pensiero economico che fa coincidere il «benessere» statistico con il «ben avere», sebbene nello stesso periodo l’illuminista napoletano Antonio Genovesi avesse sottolineato la necessità di una economia fondata sulla ricerca del bene comune. Temi che si ripropongono oggi con grande urgenza e che richiedono l’elaborazione di nuovi codici e regole. 


Per concepire e costruire una società di abbondanza frugale e una nuova forma di felicità, è necessario decostruire l’ideologia della felicità quantificata della modernità; in altre parole, per decolonizzare l’immaginario del PIL pro capite, dobbiamo capire come si è radicato.

Quando, alla vigilia della Rivoluzione francese, Saint-Just dichiara che la felicità è un’idea nuova in Europa, è chiaro che non si tratta della beatitudine celeste e della felicità pubblica, ma di un benessere materiale e individuale, anticamera del PIL pro capite degli economisti. Effettivamente, in questo senso, si tratta proprio di un’idea nuova che emerge un po’ ovunque in Europa, ma principalmente in Inghilterra e in Francia. 

La Dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776 degli Stati Uniti d’America, paese in cui si realizza l’ideale dell’Illuminismo su un terreno ritenuto vergine, proclama come obiettivo: «La vita, la libertà e la ricerca della felicità». Nel passaggio dalla felicità al PIL pro capite si verifica una tripla riduzione supplementare: la felicità terrestre è assimilata al benessere materiale, con la materia concepita nel senso fisico del termine; il benessere materiale è ricondotto al «ben avere» statistico, vale a dire alla quantità di beni e servizi commerciali e affini, prodotti e consumati; la stima della somma dei beni e dei servizi è calcolata al lordo, ossia senza tenere conto della perdita del patrimonio naturale e artificiale necessaria alla sua produzione.

Il primo punto è formulato nel dibattito fra Robert Malthus e Jean Baptiste Say. Malthus comincia col comunicarci la propria perplessità: «Se la pena che ci si dà per cantare una canzone è un lavoro produttivo, perché gli sforzi che si fanno per rendere divertente e istruttiva una conversazione e che sicuramente offrono un risultato ben più interessante, dovrebbero essere esclusi dal novero delle produzioni attuali? Perché non vi si dovrebbero comprendere gli sforzi che dobbiamo fare per moderare le nostre passioni e per diventare obbedienti a tutte le leggi divine e umane che sono, senza possibilità di smentita, i beni più preziosi? Perché, in sostanza, dovremmo escludere un’azione qualsiasi il cui fine sia quello di ottenere il piacere o di evitare il dolore, sia del momento che nel futuro?».


Materiali e immateriali

Certo, ma è Malthus stesso poi a osservare che questa soluzione porterebbe direttamente all’autodistruzione dell’economia come campo specifico. «È vero che in tal modo potrebbero esservi comprese tutte le attività della specie umana in tutti i momenti della vita», nota giustamente. Infine, aderisce al punto di vista riduttivo di Say: «Se poi, insieme a Say», scrive Malthus «desideriamo fare dell’economia politica una scienza positiva, fondata sull’esperienza e capace di dare risultati precisi, dobbiamo essere particolarmente precisi nella definizione del termine principale di cui essa di serve (cioè, la ricchezza) e comprendervi solamente quegli oggetti il cui aumento o diminuzione siano tali da potere essere valutati; e la linea più ovvia e utile da tracciare è quella che separa gli oggetti materiali da quelli immateriali».

In accordo con Jean-Baptiste Say, che definisce così la felicità del consumo, non molto tempo fa Jan Tinbergen proponeva di ribattezzare il PNL semplicemente FNL (felicità nazionale lorda). In realtà, questa pretesa arrogante dell’economista olandese è solo un ritorno alle fonti. Se la felicità si materializza in benessere, versione eufemizzata del «ben avere», qualsiasi tentativo di trovare altri indicatori di ricchezza e di felicità sarebbe vano. Il PIL è la felicità quantificata.

È facile condannare questa pretesa di equiparare felicità e PIL pro capite, dimostrando che il prodotto interno o nazionale misura solo la «ricchezza» commerciale. In effetti, dal PIL sono escluse le transazioni fuori mercato (lavori domestici, volontariato, lavoro in nero), mentre invece le spese di «riparazione»sono contate in positivo e i danni generati (esternalità negative) non vengono dedotti, neppure la perdita del patrimonio naturale. Si dice ancora che il PIL misura gli outputs o la produzione, non gli outcomes o i risultati.

È appropriato ricordare il bellissimo discorso di Robert Kennedy (scritto probabilmente da John Kenneth Galbraith) pronunciato qualche giorno prima del suo assassinio. «Il nostro PIL (…) include l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le corse delle ambulanze che raccolgono i feriti sulle strade. Include la distruzione delle nostre foreste e la scomparsa della natura. Include il napalm e il costo dello stoccaggio dei rifiuti radioattivi. In compenso, il pil non conteggia la salute dei nostri bambini, la qualità della loro istruzione, l’allegria dei loro giochi, la bellezza della nostra poesia o la saldezza dei nostri matrimoni. Non prende in considerazione il nostro coraggio, la nostra integrità, la nostra intelligenza, la nostra saggezza. Misura qualsiasi cosa, ma non ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta».

La società economica della crescita e del benessere non realizza l’obiettivo proclamato dalla modernità, cioè: la felicità più grande per il maggior numero di persone. Lo constatiamo chiaramente. «Nel XIX secolo, nota Jacques Ellul, la felicità è legata essenzialmente al benessere, ottenuto grazie a mezzi meccanici, industriali, e grazie alla produzione. (…) Una tale immagine della felicità ci ha condotti alla società del consumo. Adesso che sappiamo per esperienza che il consumo non fa la felicità, conosciamo una crisi di valori». Il fatto è che nella riduzione economicista , come osserva Arnaud Berthoud, «tutto ciò che fa la gioia di vivere insieme e tutti i piaceri dello spettacolo sociale dove ognuno si mostra agli altri in tutti i luoghi del mondo – mercati, laboratori, scuole, amministrazioni, vie o piazze pubbliche, vita domestica, luoghi di svago… sono rimossi dalla sfera economica e collocati nella sfera della morale, della psicologia o della politica. La sola felicità che ci si aspetta ancora dal consumo è separata dalla felicità degli altri e dalla gioia comune». (…)

Il progetto di una «economia» civile o della felicità sviluppato soprattutto da un gruppo di economisti italiani (rappresentato principalmente da Stefano Zamagli, Luigino Bruni, Benedetto Gui, Stefano Bartolini e Leonardo Becchetti) si ricollega alla tradizione aristotelica e trae origine da una critica dell’individualismo. La costruzione di una tale economia resuscita la «publica felicità» di Antonio Genovesi e della scuola napoletana del XVIII secolo che il trionfo dell’economia politica scozzese ha respinto. La felicità terrestre, in attesa della beatitudine promessa ai giusti nell’aldilà, generata da un governo retto (buon governo) che persegue la ricerca del bene comune era, in effetti, l’oggetto di riflessione degli Illuministi napoletani. Integrando il mercato, la concorrenza e la ricerca da parte del soggetto commerciale di un proprio interesse personale, essi non ripudiavano l’eredità del tomismo. Questi teorici dell’economia civile sono perfettamente coscienti del «paradosso della felicità» riscoperto dall’economista americano Richard Easterlin. «È legge dell’universo – scriveva Genovesi – che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri». Ci sono voluti due secoli di distruzione frenetica del pianeta grazie al «buon governo» della mano invisibile e dell’interesse individuale eretto a divinità per riscoprire queste verità elementari. (…)


Merci fittizie

Come aveva visto bene Baudrillard a suo tempo, «una delle contraddizioni della crescita è che produce beni e bisogni allo stesso tempo, ma non li produce allo stesso ritmo». Ne risulta ciò che egli chiama «una pauperizzazione psicologica», uno stato di insoddisfazione generalizzata, che, dice, «definisce la società di crescita come l’opposto di una società di abbondanza». La frugalità ritrovata permette di ricostruire una società di abbondanza sulla base di quello che Ivan Illich chiamava la «sussistenza moderna». Vale a dire, «il modo di vita in un’economia postindustriale all’interno della quale le persone sono riuscite a ridurre la propria dipendenza nei confronti del mercato, e l’hanno fatto proteggendo – con mezzi politici – un’infrastruttura in cui tecniche e strumenti servono, essenzialmente, a creare valori di uso non quantificato e non quantificabile dai fabbricanti professionali di bisogni». Si tratta di uscire dall’immaginario dello sviluppo e della crescita, e di re-incastonare il dominio dell’economia nel sociale attraverso una Aufhebung (toglimento/superamento).

Tuttavia, uscire dall’immaginario economico implica rotture molto concrete. Sarà necessario fissare regole che inquadrino e limitino l’esplosione dell’avidità degli agenti (ricerca del profitto, del sempre più): protezionismo ecologico e sociale, legislazione del lavoro, limitazione della dimensione delle imprese e così via. E in primo luogo la «demercificazione» di quelle tre merci fittizie che sono il lavoro, la terra e la moneta. Si sa che Karl Polanyi vedeva nella trasformazione forzata di questi pilastri della vita sociale in merci il momento fondante del mercato autoregolatore. Il loro ritiro dal mercato mondializzato segnerebbe il punto di partenza di una reincorporazione/reinnesto dell’economia nel sociale. Parallelamente a una lotta contro lo spirito del capitalismo, sarà opportuno dunque favorire le imprese miste in cui lo spirito del dono e la ricerca della giustizia mitighino l’asprezza del mercato. Certo, per partire dallo stato attuale e raggiungere «l’abbondanza frugale», la transizione implica nuove regole e ibridazioni e in questo senso le proposte concrete degli altermondialisti, dei sostenitori dell’economia solidale fino alle esortazioni alla semplicità volontaria, possono ricevere l’appoggio incondizionato dei partigiani della decrescita. Se il rigore teorico (l’etica della convinzione di Max Weber) esclude i compromessi del pensiero, il realismo politico (l’etica della responsabilità) presuppone il compromesso per l’azione. La concezione dell’utopia concreta della costruzione di una società di decrescita è rivoluzionaria, ma il programma di transizione per giungervi è necessariamente riformista. Molte proposte «alternative» che non rivendicano esplicitamente la decrescita possono dunque felicemente trovare posto all’interno del programma.

Lo spirito del dono

Un elemento importante per uscire dalle aporie del superamento della modernità è la convivialità. Oltre ad affrontare il riciclaggio dei rifiuti materiali, la decrescita si deve interessare alla riabilitazione degli emarginati. Se lo scarto migliore è quello che non è prodotto, l’emarginato migliore è quello che la società non genera. Una società decente o conviviale non produce esclusi. La convivialità, il cui termine Ivan Illich prende in prestito dal grande gastronomo francese del XVIII secolo Brillat Savarin (Le fisiologia del gusto. Meditazioni di gastronomia trascendentale), mira appunto a ritessere il legame sociale smagliato dall’«orrore economico» (Rimbaud). La convivialità reintroduce lo spirito del dono nel commercio sociale accanto alla legge della giungla e riprende così la philia (amicizia) aristotelica, ricordando al contempo lo spirito dell’agape cristiana. Questa preoccupazione si ricollega appieno all’intuizione di Marcel Mauss che nel suo articolo del 1924, Apprezzamento sociologico del bolscevismo, sostiene, «a rischio di apparire antiquato» di dover tornare «ai vecchi concetti greci e latini di caritas (che oggi traduciamo così male con carità), di philia, di koinomia, di questa “amicizia” necessaria, di questa “comunità” che sono l’essenza delicata della città».

È importante anche scongiurare la rivalità mimetica e l’invidia distruttrice che minacciano ogni società democratica. Lo spirito del dono, fondamentale per la costruzione di una società di decrescita, è presente in ognuna delle R che formano il cerchio virtuoso proposto per dare vita all’utopia concreta della società autonoma. Soprattutto nella prima R, rivalutare, poiché indica la sostituzione dei valori della società commerciale (la concorrenza esacerbata, il ciascuno per sé, l’accumulo senza limiti) e della mentalità predatrice nei rapporti con la natura, con i valori di altruismo, di reciprocità e di rispetto dell’ambiente. Il mito dell’inferno dalle lunghe forchette con cui si apre la seconda parte del libro La scommessa della decrescita è esplicito: l’abbondanza abbinata al ciascuno per sé produce miseria, mentre la spartizione, pur nella frugalità, genera soddisfazione in tutti, perfino gioia di vivere. La seconda R, riconcettualizzare, insiste invece sulla necessità di ripensare la ricchezza e la povertà. La «vera» ricchezza è fatta di beni relazionali, quelli fondati appunto sulla reciprocità e la non rivalità, il sapere, l’amore, l’amicizia. Al contrario, la miseria è soprattutto psichica e deriva dall’abbandono nella «folla solitaria», con cui la modernità ha sostituito la comunità solidale. (…)

È imperativo ridurre il peso del nostro modo di vita sulla biosfera, ridurre l’impronta ecologica i cui eccessi si traducono in prestiti richiesti alle generazioni future e all’insieme del cosmo, ma anche al Sud del mondo. Abbiamo dunque l’obbligo di dare in cambio ciò che si trova al centro della maggior parte delle altre R: ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Ridistribuire rimanda all’etica della spartizione, ridurre (la propria impronta ecologica) al rifiuto della predazione e dell’accaparramento, riutilizzare, al rispetto per il dono ricevuto e riciclare, alla necessità di restituire alla natura e a Gaia ciò che è stato preso in prestito da loro.

Questa la differenza sostanziale tra il ben-avere e il ben-essere e i passaggi necessari per raggiungerlo.

Serge Latouche

Traduzione di Laura Pagliara

Michele Meomartino - Rivoluzione domestica. L'arte di vivere con cura - Premessa

Michele Meomartino sull'albero di fico

Premessa - Ritengo doveroso e onesto da un punto di vista intellettuale far presente al lettore e alle lettrici le modalità che ho scelto nella scrittura di questo libro in cui la preoccupazione principale è stata quella di raccontare fedelmente la vita del protagonista Antonio D’Andrea. Anche se nessun libro potrai mai avere la pretesa di raccontare la complessità e la profondità di un essere umano, fosse anche il più esaustivo. Il mistero che ogni uomo racchiude non si lascia svelare facilmente dalle parole e dai nostri immaginari per quanto seducenti e rappresentativi.

Nelle pagine che ho scritto ho cercato di essere aderente alla realtà dei fatti così come mi sono stati raccontati e alle fonti che ho consultato. Il libro è un’opera biografica. L’unica licenza che mi sono permesso e a cui sono ricorso è stato un artificio in cui il protagonista narra in prima persona la sua storia. Di fatto, c’è la mediazione della mia scrittura e del mio stile narrativo.
Antonio, forse, avrebbe raccontato di sé usando espressioni e frasi diverse. Le ragioni che mi hanno spinto a fare questa scelta nascerebbero dalla convinzione che il racconto che promana direttamente dal protagonista acquisterebbe più forza e creerebbe quel pathos tra lui e il lettore indispensabile per una comprensione più profonda del testo. Il mio è solo un auspicio.
Invece mi sento debitore nei confronti di tutti coloro che hanno reso possibile la stesura di questo libro a cominciare dalle amiche e dagli amici che con la loro testimonianza lo hanno arricchito. E per espressa volontà di Antonio, come avviene in tutte le attività dell’Associazione Vivere con cura, il libro è dedicato alle donne e in particolare a Peppina, Elena e Maria Bambina.
Anche i singoli capitoli sono stati dedicati a qualcuna/o perché vorrebbero essere doveroso omaggio verso coloro che, con i loro doni, hanno contribuito a far crescere il nostro protagonista senza, come lui spesso sottolinea, farlo diventare adulto, ma adolescente – bambino. Ovviamente, ci scusiamo se in questo lungo elenco ci sarà stata qualche dimenticanza.

Michele Meomartino

Cop. Meomartino.jpg



Note tecniche:

Titolo: RIVOLUZIONE DOMESTICA - L'arte di vivere con cura

Autore: Michele Meomartino

Prefazione: Giuseppina Anna Salmaso

Postfazione: Anna Montaruli

Testimonianze e contributi: Isabella Carloni, Anna Ceccherini, Emilia Costa, Paolo D’Arpini, Ilaria Galiotto, Paola Marucci, Anna Montaruli, Isabella Pannunzio, Marilena Pompa, Caterina Regazzi, Marcella Rossi, Giusi Salmaso, Fabiola Serafini, Gregorio Venditti

Casa editrice: Edizioni Tracce. Collana Olistica diretta da Michele Meomartino

Pagine 178 - Prezzo di copertina: 12 euro


Le scelte di Umberto Veronesi: vegetarianesimo, energia atomica, OGM, vaccini, cure chimiche, etc...

Tratto dal libro “Verso la scelta vegetariana – il tumore si previene anche a tavola” di Umberto Veronesi:
“La carne è cancerogena… ed è anche causa di quasi tutte le malattie degenerative, eliminatela o limitatene il consumo.
Molti mi chiedono il motivo per cui le popolazioni non sono informate su questo, perché i medici non ne parlino e perché l’opinione comune è di tutt’altra realtà. La base è che viene fatta un informazione errata, dalle università alle riviste medico scientifiche. I professori nelle università insegnano cose errate sull’argomento alimentazione, gli studenti a loro volta insegneranno non in maniera corretta i loro futuri alunni o pazienti e così via.Le riviste medico scientifiche più accreditate sono sul libro paga delle multinazionali farmaceutiche e pubblicano solo ciò che è consentito loro di pubblicare o ciò che è imposto loro dalle suddette multinazionali.Molti medici e ricercatori, sulla base anche di numerose ricerche, per la maggior parte “insabbiate”, sono coscienti degli effetti dannosi del consumo di carne, ma hanno le mani legate. Io,che sono uno scienziato di fama internazionale, posso prendermi il lusso di fare queste affermazioni, se lo facessero loro, probabilmente non lavorerebbero più.
L’industria alimentare e le multinazionali farmaceutiche viaggiano di pari passo, l’una ha bisogno dell’altra e queste due entità insieme, generano introiti circa venti volte superiori a tutte le industrie petrolifere del globo messe insieme…potete quindi ben capire che gli interessi economici sono alla base di questa disinformazione.
Se tenete conto che ogni malato di cancro negli stati uniti fa guadagnare circa 250.000 dollari a suddette multinazionali, capirete che questa disinformazione è voluta ed è volta a farvi ammalare per poi tentare di curarvi”.

Il prof. Veronesi è però favorevole all'energia atomica,  ai cibi OGM ed anche a vaccini terapeutici contro il cancro o altre malattie oncoequivalenti perché dichiara che il DNA è alterato da virus. In una intervista rilasciata alla rivista “Class” nel 2004 afferma che occorre conoscere anche la propria psiche-mente e invece, paradossalmente, in una trasmissione televisiva domenicale di qualche anno fa dichiara che le cause di tumori-cancri non si devono ricercare anche nella mente aggiungendo che se così fosse ci sarebbero state molte forme tumorali in tempo di guerra. Le forme tumorali, purtroppo, ci sono state eccome: basti pensare anche alle varie pandemie: spagnola, tubercolosi ecc. che sono forme tumorali generate dalla paura della morte, o alle poliomieliti che non sono scemate per il vaccino ma per migliori condizioni di vita. In Indonesia, tutti vaccinati contro la polio, dopo lo tsunami del 2004 si sono riscontrati numerosissimi casi di polio dovuti al trauma psichico -conflitto motorio- subito dalle persone.

Paola Botta Beltramo

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Commento di Claudio Piacentini:  "Una persona stimabile, uno scienziato saggio. La formazione di un medico allopata spesso porta a separare argomenti apparentemente distanti tra loro. Io credo e sostengo che l'intera Umanità o meglio tutte le forme viventi del nostro Pianeta interagiscano come sistema fisico. Ne consegue che ogni singola azione abbia necessariamente una implicazione collettiva!"

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Commento  di  Riccardo: “ciao Paolo, come sai sono un super ambientalista e animalista, vorrei esprimere il mio dissenso a certi commenti su Veronesi che stimo per quello che ha fatto contro il cancro ma anche per le migliaia di persone veg. grazie al suo libro. Per me è una persona di cultura e della quale l'Italia deve andar fiera, si è schierato inoltre contro la vivisezione, non trovo giusti certi commenti contro di lui,  ognuno di noi ha idee positive e negative, lui purtroppo è a favore del nucleare ma non è motivo per accanirsi su una persona che ha fatto tanto.”


Precisazione di Paola Botta Beltramo: 
Rispondo  ai commenti -  Scrivere che il prof. Veronesi è a favore dei cibi OGM non significa disistima ma semplice informazione.  Può darsi  che ora abbia cambiato idea anche in tal senso ed io non ne sia informata.  Ed è sempre  e soltanto informazione scrivere che il prof. Veronesi  è anche favorevole ai vaccini terapeutici contro malattie oncologiche o oncoequivalenti perché ritiene che siano i virus la causa delle alterazioni del DNA (vedi forum sportello cancro del Corriere della Sera –30-3-2012) e che, come pubblicato dal giornaletto di  qualche giorno fa,  il  prof. Veronesi ora  dichiari che occorre ridurre la chemioterapia fino ad eliminarla, così come affermato anche dalla rivista scientifica Nature il 6 agosto 2012.  Mi sembra doveroso anche ricordare che, per le  stesse informazioni sugli effetti della chemio il dr. Hamer è stato incarcerato per oltre due anni e che  anche  molti altri medici e terapeuti sono stati perseguiti penalmente e trattati mediaticamente al pari di mostri.  Preciso anche che le scoperte del dr. Hamer consentono di  comprendere che ogni persona è un unicum e che pertanto non si possono approntare protocolli di cura uguali per tutti. E qui sta la difficoltà maggiore per la scienza perché sue scoperte possono essere definite scientifiche ma solo a livello individuale. D’altronde se olismo significa considerazione del rapporto esistente tra spirito-anima-corpo  o mente-corpo e se è appurato che la mente è soggettiva e individuale come può essere altrimenti? Tutti sanno che la mente influenza il corpo così come cibo, aria, acqua, farmaci e  veleni vari  ecc. influenzano la mente. Sono molto contenta che il prof. Veronesi  abbia scritto a favore della dieta vegetariana e contro la vivisezione  -sono iscritta alla Società Teosofica da oltre trent’anni anche per questi  motivi-  ma ritengo anche che sia importante  evidenziare  quanto sopra per una ricerca libera da pregiudizi.  Grazie per l’attenzione.    
Paola Botta Beltramo

L'altro mondo di Nisargadatta Maharaj

Nisargadatta Maharaj


Maharaj: You are all drenched for it is raining hard. In my world it
is always fine weather. There is no night or day, no heat or cold. No
worries beset me there, nor regrets. My mind is free of
thoughts, for there are no desires to slave for.

Questioner: Are there two worlds?
M: Your world is transient, changeful. My world is perfect,
changeless. You can tell me what you like about your world -- I shall
listen carefully, even with interest, yet not for a moment shall I
forget that your world is not, that you are dreaming.

Q:      What distinguishes your world from mine?
M: My world has no characteristics by which it can be identified. You
can say nothing about it. I am my world. My world is myself. It is
complete and perfect. Every impression is erased, every experience --
rejected. I need nothing, not even myself, for myself I cannot lose.

Q:      Not even God?
M: All these ideas and distinctions exist in your world; in mine there
is nothing of the kind. My world is single and very simple.

Q:      Nothing happens there?
M: Whatever happens in your world, only there it has validity and
evokes response. In my world nothing happens.

Q:      The very fact of your experiencing your own world implies duality
inherent in all experience.
M: Verbally -- yes. But your words do not reach me. Mine is a
non-verbal world. In your world the unspoken has no existence. In mine
-- the words and their contents have no being. In your world nothing
stays, in mine -- nothing changes. My world is real, while yours is
made of dreams.

Nisargadatta Maharaj - I AM THAT

Spilamberto (Mo) - Giugno e luglio 2013 - Incontri informali con Paolo D'Arpini per apprendere i misteri degli archetipi psichici…


Due sono stati  gli italiani illustri che hanno legato il loro nome alla scoperta dei misteri di Cina ed India. Il primo fu il gesuita Matteo Ricci (1552/1610) che soggiornò lungamente presso la corte imperiale cinese scrivendo diversi libri in Mandarino (la lingua dotta); la sua più importante composizione fu il Grande Mappamondo, la cui sesta edizione fu fatta ristampare su ordine dell’imperatore stesso. Egli cercò di integrare la cultura cinese con quella occidentale in una sintesi più apprezzata in Cina, ove morì a Pechino, che presso la chiesa cattolica che lo aveva inviato in Cina come “missionario”.

L’altro grande ricercatore fu il professor Giuseppe Tucci (1894/1984), fondatore e curatore dell’ISMEO, l’istituto italiano per lo studio della cultura orientale e importante museo sito in Via Merulana a Roma. 

Io ebbi la fortuna di visitare quel museo e fui toccato dal rispetto con il quale le reliquie di religioni esterne alla nostra cultura avessero trovato ospitalità e idonea spiegazione. 

In seguito a ciò mi interessai alla letteratura ed alle traduzioni originali prodotte dall’esimio professor Tucci e mi abbeverai a quella fonte di conoscenza. In particolare apprezzai le sue ricerche sulla cultura nepalese e tibetana e la sua ricerca sull’antica saggezza cinese, laica per antonomasia, rivolta al benessere dello stato e del popolo. In particolare Giuseppe Tucci é stato in grado di offrirci un quadro suggestivo dei due indirizzi culturali della Cina, il Confucianesimo ed il Taoismo, la via della correttezza e la via della spontaneità.

Ricettacolo di questi due aspetti sociali é il Libro dei Mutamenti, I Ching, uno dei saggi testi più antichi dell’umanità. In esso sono integrati diversi commenti di Confucio e di Lao Tze, nonché considerazioni più tardive di matrice Chan (Meditazione Buddista). All’I Ching, di cui é disponibile un’ottima traduzione di Richard Wilhelm, con prefazione di Carl Gustav Jung, sono riconducibili anche gli archetipi psichici basilari dello zodiaco cinese.

La mia pluridecennale ricerca compiuta sia su testi di matrice cinese che indiana, come ad esempio Il Potere del Serpente, mi ha portato a elaborare un sistema archetipale congiunto, basato sugli esagrammi dell’I Ching e sui cinque elementi indiani. Seguendo poi la tradizione orientale, ed avendo “completato” i miei studi e le mie sperimentazioni dal vivo, ho deciso di trasmettere la conoscenza acquisita attraverso una serie di incontri informali su appuntamento  che si terranno a  Spilamberto (Mo)  tra giugno e luglio del 2013.  

Le sessioni sono gratuite e si svolgono dalla mattina alla sera, vivendo in spirito comunitario la quotidianetà, e condividendo cibo e lavoro. Ognuno é invitato a portare alimenti vegetariani e bevande. Alla fine chi lo desidera potrà lasciare un contributo volontario per il sostenimento della causa.

Paolo D’Arpini - circolo.vegetariano@libero.it

Alcuni brani dal testo di A. H. Almaas, La pratica della presenza


"Il viaggio spirituale non consiste nel fare esperienze, nell'avere intuizioni interessanti o percezioni insolite [...]. 

La pratica interiore è sostanzialmente una questione di calma e assestamento. Si tratta di rasserenarsi nella semplicità dell'essere se stessi, di sentire la nostra realtà: essere nella realtà anziché nei suoi echi. [...]

Essere veri significa essere come si è quando siamo da soli e calmi: «So che sono così, so come mi sento e sto bene in tale situazione. Non provo conflitti al riguardo. E quando interagisco con qualcuno, a interagire è la realtà di quel che sono». Di solito la gente non si sforza di compiere il lavoro interiore se non vuole essere reale, se non ritiene che essere veri sia una cosa buona, da desiderare o apprezzare. Vi è qualcosa di prezioso, di non analizzabile, nell'essere veri in un'interazione. [...]

Ma sarebbe fuorviante voler essere veri per sentirsi soddisfatti, felici o realizzati. No, vogliamo essere veri perché amiamo davvero essere reali. Adoriamo la realtà, amiamo sentirla, vederla ed esserla il più possibile. Ma possiamo riconoscere di amare questa qualità della realtà in sé e per sé, e non ciò che ci procura, solo se sapremo rallentare e riposarci nei più semplici e preziosi momenti della vita.
Non amiamo il vero perché ci fa stare bene o è bene per noi [...]. 

Lo amiamo perché sappiamo che, essendo veri, siamo a casa, indipendentemente dal gusto o dalla sensazione che questo ci dà. A volte esserlo comporta accettare il dolore o una verità che fa male. Eppure, quando lo siamo, dentro di noi qualcosa si allinea a un terreno di interiore autenticità. Amiamo questo stato perché lo sentiamo giusto per la nostra anima, con una sensazione del tipo: «Ah, eccomi qui, e non c'è altro da fare che essere». [...]

Non mediteremo, pregheremo, canteremo o lavoreremo su di noi per migliorarci. Non svolgerò la pratica per essere alla pari del mio vicino, perché ho un'idea oppure ho sviluppato un ideale, magari orecchiato altrove, e ho deciso che è una cosa buona da perseguire. Non si tratta di inseguire qualcosa. Basta assestarsi dentro se stessi. [...]

In fondo impegnarsi nella pratica interiore e vivere la vita non sono cose distinte. [...] 

Essere veri [...] è il non sentire alcuna distanza da sé: nessuna dissociazione, dispersione, disseminazione, distrazione. Più riconosceremo quest'unione, questa presenza, questo essere qui, quest'assestamento, tanto più proveremo la sensazione della realtà, di essere veri" (pp. 17-21). 

Quanto lavoro da fare... O meglio: non c'è proprio nulla da fare, ma almeno togliere tutto ciò che di aggiunto, cioè di sostanzialmente falso vi è in noi. Il falso che siamo, le falsità che diciamo, la sofferenza che produciamo nella nostra persona e negli altri. Ciò che perdiamo, del contatto con la nostra semplice verità, del contatto con l'amore dell'altro.

Entrare nel nostro fondo, stare lì, non cercare altro, nemmeno il capire cosa sia. Stare in questa connessione ci darà tutto: l'essere, l'andare, il comprendere, il sentire.