La Filosofia della Pansessualità di Peter Boom



La Teoria della Pansessualità (comprendente tutte le tendenze sessuali dell’uomo, siano esse occasionali o permanenti) è basata sull’osservazione dei fenomeni naturali ed è un argomento di ricerca riconosciuto dalla sessuologia mondiale.

La Teoria si propone di far superare i correnti "pregiudizi" spesso causa di disordine, emarginazione ed esclusione nella società contemporanea. 

Chiunque può esser nato con specifiche tendenze sessuali o può svilupparle successivamente e, se non dannose socialmente, non dovrebbe reprimerle.
La nostra sessualità, come i nostri sentimenti, può risvegliarsi in una scala di intensità e modi verso persone di qualsiasi sesso, età ed aspetto, vive, morte o immaginarie, verso animali, cose e verso noi stessi. Laddove il sesso viene considerato "peccaminoso" possono crearsi conflitti interni, esterni e fobie. 

Considerato che tutti gli stimoli vengono dalla natura, ed essendo noi parte di essa, non siamo in grado di eluderli. Se una certa tendenza sessuale emerge, sicuramente le risultanti necessità e risposte sono anch'esse naturali e parte di un processo subconscio. La storia e l'antropologia raccontano l'infinita variabilità del comportamento sessuale: la libertà di vivere il pansessualismo può certamente sciogliere alcune nevrosi, inutili sensi di colpa e di vergogna. 

Sarebbe sufficiente accettare la nostra ed altrui sessualità con maggiore apertura mentale per placare l'ansia causata dal credere di aver commesso un "peccato". In effetti la Teoria della Pansessualità aiuta a comprendere le numerose vie sessuali presenti o latenti in noi per accettarle e viverle con intelligenza, responsabilità e gioiosa naturalezza. 

Per finire voglio ancora ringraziare il nostro Paolo D'Arpini che mi ha sempre appoggiato, corretto e spronato all'approfondimento.
 
Peter Boom

Wu wei - Sentirsi artefici non aiuta il compimento



C’è una sostanziale differenza, nell’atteggiamento interiore, se noi crediamo di aver scelto il compimento di una determinata azione (o corso di azioni) oppure se noi semplicemente sentiamo di star affrontando delle contingenze (se rispondiamo cioè allo stimolo degli eventi in corso). Nel primo caso ci sentiamo responsabili ed abbiamo precise aspettative verso i risultati del nostro agire, nel secondo sappiamo che la nostra energia si muove in sintonia con le condizioni in cui ci troviamo e non calcoliamo di dover adempiere ad un preciso fine.

E’ evidente che nel primo caso sperimentiamo un senso di costrizione, delusione o speranza, mentre nel secondo il nostro comportamento molto somiglia ad un gioco infantile. Sappiamo bene che il distacco e la quiete interiore sono un fattore importante per la riuscita, tant’è che al momento di superare un esame facciamo di tutto per sentirci rilassati, anche se –in verità- lo sforzo stesso di rilassarci non produce l’effetto desiderato…..Eppure, nel mondo parliamo di “riuscita” in ben altri termini e cerchiamo sempre di porre l’accento sul nostro “sforzo personale”.

Ma torniamo a considerare il primo caso, in cui definiamo il nostro agire una “libera scelta”, agendo come bulldozers e seguendo regole precise auto-imposte o subite, affermando “questa è la nostra decisione” e seguendola con fede cieca. Magari non siamo consapevoli che nel secondo caso potremmo facilmente galleggiare -o nuotare- seguendo la corrente e che la nostra volontà corrisponderebbe spontaneamente alla nostra disposizione innata.

Vediamo ora che i risultati ottenuti nel primo caso sono per noi frutto di preoccupazione e sconforto mentre nel secondo caso, navigando a vista, ogni risultato è una scoperta, ogni approdo un arricchimento. Ma –stranezza del caso- sentiamo affermare nel mondo “…quello è un uomo tutto d’un pezzo e di successo che si è fatto da sé lottando con le unghie e coi denti…” e per contro “…quella persona è un sempliciotto che vive in beata innocenza, senza interessi e non sa nemmeno cosa è bene e cosa è male…”. 

Ed a questo punto vorrei chiedervi, non furono cacciati Adamo ed Eva dal paradiso terrestre proprio per aver assaggiato il frutto del bene e del male? Eppure di tutta la Genesi questo, che mi sembra il passaggio più significativo, viene spesso descritto come una favola… in realtà è un’allegoria dell’uscita dall’armonia dell’unità primigenia e l’entrata nell’inferno della differenza, del dualismo e della separazione.

Per fortuna non dobbiamo aspettare molto (né tante .. e neppure una vita, basta un momento) per capire il trucco dell’illusione, della proiezione egoica duale, giacché l’unità nella coscienza non è mai venuta meno, è proprio qui ed ora… e non allora o domani… 


Paradiso ed inferno son solo paradigmi della mente, nel divenire. Si chiedeva Eric Fromm: “essere o avere?”

Paolo D’Arpini



Gli enotri, il re Italo e l'origine dei "sissizi" (pranzi collettivi conviviali)



LA CULLA DELLA  CULTURA PACIFISTA NEL MEDITERRANEO TRAE LE SUE ORGINI DAI SISSIZI DI RE ITALO DA CUI PARTE LA SCELTA DI UNA DIETA PARCA E
VEGETARIANA EREDITATA POI DA PITAGORA DAL QUALE TRAGGONO ISPIRAZIONE GLI ESSENI CHE A LORO VOLTA PROBABILMENTE  ISPIRARONO  IL PENSIERO DI GESU’


I Sissizi  erano i pasti in comune, in genere di comunità di 15
membri, che si riunivano giornalmente per consumare il pasto. Le spese
erano ripartite in parti uguali tra i partecipanti, che
corrispondevano mensilmente la propria quota in natura e, in parte, in
danaro. Chi non era in grado di contribuire veniva retrocesso nella
categoria degli (inferiori), perdendo anche i diritti politici. La
quota che bisogna fornire era circa:  3 kg di formaggio, 1,5 kg di
fichi, 35 litri di vino.

A dire di Aristotele l’ideatore dei Sissizi fu Re Italo, nel
territorio dell'attuale Calabria, e che poi tali Sissizi si diffusero
in tutta l'area del Mediterraneo, compresa Sparta, Creta ed Egitto,
dove con la partecipazione si acquisiva il pieno diritto di
cittadinanza. Ai Sissizi era obbligatorio partecipassero anche i re.

Il cibo e le bevande erano uguali per tutti i partecipanti, ma ai
cittadini più ragguardevoli (ai re, agli efori, ai membri della
gerusia, ma anche a chiunque avesse reso particolari servigi alla
comunità) erano riservati posti d'onore, precedenze e porzioni
particolari. Il menu era sobrio ed era basato su:  pane d'orzo, brodo
nero, formaggio, fichi e a raramente cacciagione.

I sissizi caddero in disuso alla fine del 4° secolo a.C., ma furono
ripristinati, intorno al 240 a.C., dal re Agide IV, che trasformò le
ristrette comunità conviviali della tradizione in gruppi che
contenevano tra 200 e 400 membri.

In sostanza, si può far risalire al re Italo (vissuto, secondo il
mito, 3500 anni fa e fondatore dell’Italia nella terra compresa tra i
golfi di Squillace e Lamezia) la nascita della democrazia nel
Mediterraneo, cioè il primo Stato e la prima Nazione denominata
“Italia” , con l’istituzione dei “Sissizi”: pasti comuni vere e
proprie assemblee sociali e politiche.

Dice Salvatore Mongiardo, scrittore calabrese: “Il re Italo aveva
convertito il popolo degli Enotri da allevatori di animali in
agricoltori e aveva dato a quel popolo il nome di Itali (Politica VII,
10). Aristotele con quella frase certifica la nascita, assieme
all’Italia, della dieta mediterranea, perché quella terra produceva
frutta, verdure, cerali, castagne e ulive dalla primavera fino
all’inverno inoltrato. Pitagora, in ringraziamento per la scoperta del
suo famoso teorema, offrì agli dei un Bue di Pane. Nelle fiere della
costa ionica si vendono ancora oggi i mostaccioli di Soriano Calabro,
fatti a forma di animali con farina e miele: bue, capra, cavallo,
pesce. I mostacciolari di Soriano sono gli inconsci continuatori di
una tradizione che risale a Pitagora, il quale usava quelle forme
sostitutive per non uccidere l’animale, che considerava un fratello
minore al quale l’uomo doveva aiuto e protezione. Il Sissizio fu la
culla dell’eucaristia, come ho dimostrato nel mio ultimo libro “Cristo
ritorna da Crotone”. Il convivio comunitario diventò Sissizio
Pitagorico a Crotone; trasmesso poi agli Esseni, fu l’Ultima Cena di
Gesù, come ormai alcuni teologi ammettono e scrivono”.

Pitagora, che prima a Crotone e poi a Taranto fondò le sue scuole (che
anche Platone venne a visitare), assorbì gli usi ed i costumi di
questo popolo pacifico e fondamentalmente vegetariano facendo di tale
stili di vita il cardine della sua filosofia che influenzò molti
filosofi e la stessa cultura mediterranea.

Gli Enotri erano un'antica popolazione stanziata attorno al 15° secolo
a.C., in un territorio di grandi dimensioni, che da questi prese il
nome di Enotria (da Enotro figlio di Licaone), comprendente le attuali
Campania meridionale, parte della Basilicata e la Calabria.

            Gli Enotri, capeggiati dal re Italo, giunsero nell’area
catanzarese intorno al 15° sec. a.C. a causa della sconfitta subita da
parte dei Lucani, in Puglia, Basilicata e Calabria settentrionale che
spinsero questo popolo a scendere fino ad occupare parte della
Calabria centro-meridionale fino all'attuale zona della piana di Gioia
Tauro.

L'integrazione con le popolazioni locali fu pacifica e consentì un
ulteriore aumento della popolazione soprattutto sulla costa.

            L'organizzazione politica degli Enotri fu prevalentemente
di tipo federativo. Più villaggi, correlati tra loro da vitali
interessi, costituirono e fondarono le “città”, nelle quali
risiedevano le più alte istituzioni politiche e religiose.

Gli Enotri seppero sfruttare le possibilità offerte da un ambiente
naturale quanto mai fertile e fecondo e presto furono maestri
nell'agricoltura e nell'artigianato, grazie anche alla ricchezza delle
cave di argilla, degli scambi commerciali, delle prime leggi
improntate ad una cultura sempre più tipicamente urbana.

Dionigi di Alicarnasso dice che gli Enotri erano i più antichi
colonizzatori provenienti dalla Grecia, dai quali si sarebbero poi
distinte le popolazione degli Itali, Morgeti e Siculi.

Ecateo da Mileto li descrive come un popolo di montanari, dedito alla
pastorizia, che rese abitata ogni contrada della fertile terra di
Ausonia. In antichità un popolo di pastori godeva di grande stima e
rispetto, perché portatore di straordinaria potenza e saggezza.

Polibio parla degli Enotri come di un popolo in possesso di “ogni
virtù, per onestà di costumi, benignità della natura, ospitalità verso
tutti, e diverso dagli altri greci per colpe e crudeltà; notevole per
religioso rispetto verso gli dei”.

Virgilio declama l'Enotria “terra antica, potente in armi e feconda,
che gli Enotri coltivarono, e i posteri la chiamarono Italia, dal nome
del loro signore”.

Omero descrive gli Enotri come un popolo in uno stadio di civiltà
avanzato, che il re Italo aveva convertito all'agricoltura favorendo i
traffici tra Asia, Africa ed Europa, immergendoli in un fermento di
idee e ricchezze.

E il popolo dei Feaci descrisse gli Enotri come un popolo quanto mai
felice, perché vicino al regno degli dei,  le cime dei monti dove
risiedevano le divinità celesti.

Secondo Antioco di Siracusa, il successore di Italo, fu Re Morgete che
governò l'odierna Calabria sino a quando questa non fu invasa dai
Bruzi, un popolo dalle ignote origini che si stabili nella parte
centro-settentrionale della regione, ed elesse come capitale Cosenza.

Franco Libero Manco


Ecologia casalinga - Stavolta parliamo di riciclaggio... della carta



Vorrei raccontarvi come a titolo personale io abbia risolto il problema del riciclaggio cartaceo. 

L'amica Antonella Pedicelli tempo addietro mi inviò un articolo (http://altracalcata-altromondo.blogspot.it/2009/07/papiri-libri-e-giornali-tovaglioli-e.html) sul tema della "carta igienica".  In verità mi ero già occupato di questo argomento, allorché le raccontai di come risolvo il problema della "pulizia". In primis quando sono all'aperto  utilizzo alcune foglie secche (ma morbide) presenti sul terreno e successivamente un po' d'acqua per risciacquare la parte (come si usa in tutto l'oriente ed in tutta  l'Africa). 

Se invece sono in casa, ho l'abitudine di conservare i fazzoletti di carta già usati (almeno per 10 volte) e poi infine utilizzati per quello scopo... oppure conservo i tovaglioli del bar quando vado a far colazione o di qualche pizzeria se vado a mangiare una pizza e li uso poi sempre allo scopo. In tal modo ho limitato grandemente l'uso di carta igienica. 


Per quanto riguarda invece il riutilizzo della carta di giornale, che ancora raramente acquisto, non c'è problema... vanno benissimo per accendere il fuoco o per incartare qualcosa. 

Per i libri, che a volte mi regalano, se dopo averli letti non ritengo utile conservarli, li passo a mia volta a chi ritengo possano piacere oppure li do a qualche biblioteca od al giro dei libri che vengono abbandonati nei luoghi pubblici per la lettura dei passanti.

Resta solo la carta inutile delle confezioni alimentari acquistate in negozio o simili, in quel caso se si tratta di bustine di carta riusabili (quelle del pane o simili) le conservo per il riuso, se si tratta di cartoni e scatole, che non posso proprio riutilizzare brucio tutto infine nel camino o nella stufa. 


Ovviamente faccio del mio meglio per evitare prodotti con molto imballaggio... prevenendo a monte il problema.

Paolo D'Arpini


Vivere con "Furore" - Egoismo e cecità umana... ma anche umanità ritrovata




Nel 1939 appariva, come romanzo ecologico e politico, "Furore", dello scrittore americano John Steinbeck (premio Nobel 1962), immediatamente tradotto in Italia da Bompiani nel 1940; dal libro fu tratto, nello stesso 1940, un celebre film di John Ford, interpretato, fra l'altro, da un eccezionale Henry Fonda giovane.

Il romanzo è ambientato negli anni trenta del Novecento, nell'Oklahoma, uno degli stati agricoli degli Stati Uniti centrali; nei molti decenni precedenti gli immigrati, sbarcando sulla costa atlantica del Nord America, avevano cercato terre fertili spingendosi verso ovest, nel selvaggio West, dove avevano trovato grandi praterie in delicato equilibrio ecologico; la coltivazione a grano e mais ha trasformato il fragile terreno dei pascoli in un suolo esposto all'erosione del vento e delle piogge e ben presto le pianure si sono trasformate in una terra arida, in una "scodella di polvere". Centinaia di migliaia di famiglie di contadini a poco a poco hanno visto sfumare il povero reddito e, non potendo pagare i debiti e i mutui alle banche, sono stati sfrattati e sono diventati, ancora una volta emigranti.

Una di queste famiglie, quella di Tom Joad, giovani e anziani, decide di caricare le povere masserizie su una traballante automobile per andare a ovest dove dicono che in California, terra di ricchi raccolti e di acque, è possibile trovare occupazione in agricoltura. Dopo un lungo terribile viaggio la California, terra promessa, si rivela però subito ostile; ci sono troppi immigrati, non c'è lavoro per tutti e le paghe sono basse al punto che è in atto uno sciopero; i padroni, attraverso "caporali" organizzati dalla criminalità, sono disposti ad assumere i nuovi arrivati come crumiri che subito si scontrano con gli altri poveri in sciopero, poveri contro poveri.

Uno spiraglio è offerto da un campo di accoglienza statale della "Resettlement Administration", l'agenzia creata da F.D.Roosevelt (1882-1945), divenuto presidente degli Stati Uniti nel marzo 1933, e affidata a Rexford Tugwell (1891-1979), un professore di economia, studioso di agricoltura, ma soprattutto una eccezionale figura di difensore dei diritti civili e degli emigranti. Nel campo dell'agenzia gli immigrati con poca spesa trovano casette decenti, docce e acqua corrente, spazi per i bambini; l'agenzia statale ha cura anche di procurare lavoro a paghe dignitose, organizza opere di difesa del suolo e rimboschimento, assegna piccoli appezzamenti di terreno e organizza cooperative. Naturalmente i padroni degli operai in sciopero usano la criminalità locale, con la complicità della polizia, per cercare di smantellare i campi di accoglienza con la scusa che sono fonte di disordini.

Il libro "Furore" finisce con una pagina di commovente solidarietà; proprio quando sembra che stia finendo il lungo calvario, Rosa, la più giovane dei Joad, perde il bambino di cui era incinta e offre il latte del proprio seno ad un vecchio che sta per morire disidratato e che rinasce col latte che era destinato al bambino morto.

"Furore" è una parabola di quanto è sotto i nostri occhi di questi tempi. Alla base delle migrazioni ci sono sempre, direttamente o indirettamente, crisi ambientali. Oggi la siccità e le inondazioni spingono persone e popoli dall'Africa e dall'Asia verso l'Europa, alla ricerca di condizioni migliori di vita per se e per i propri figli.Anche da noi, come nella California dei Joad, gli abitanti, ricchi egoisti o poveri anch'essi, li respingono o costringono a lavori spesso disumani; gli immigrati nei campi:"muoiono di fame perché noi si possa mangiare", oggi come nel 1938 quando Edith Lowry scrisse il suo celebre libro, lavorano in fabbriche inquinanti e pericolose, in cantieri edili su impalcature insicure, esposti al caporalato e alla criminalità.

Come nella California dei Joad la nostra società assiste impassibile, anzi con odio, ai viaggi disperati dalle terre d'origine all'Italia, lascia marcire degli immigrati in rifugi in cui neanche i cani abiterebbero --- ne abbiamo avuto testimonianze anche in recenti servizi della televisione di stato --- e assiste indifferente al loro dolore: dolore per la lontananza dai loro cari, per la difficoltà della lingua; solo poche strutture di assistenza, spesso volontarie, li aiutano a superare i cavilli burocratici e li aiutano a spedire i magri risparmi alle lontane famiglie. Con la promessa di "sicurezza" per i bianchi padani e con una campagna di odio sobillata da molta parte della stampa, l'attuale maggioranza parlamentare respinge gli immigrati più indifesi, li rimanda alla loro miseria.

Eppure non siamo sempre stati così. Dopo la Liberazione, negli anni cinquanta, il "Comitato Amministrativo di Soccorso Ai Senzatetto", l'UNRRA-CASAS, col sostegno del "Movimento di Comunità" di Adriano Olivetti (1901-1960), assicurò una vera abitazione, non un rifugio, ai contadini meridionali immigrati nelle terre della riforma fondiaria. Apparve anche allora che un intervento statale di costruzione di alloggi e di assistenza civile può alleviare il disagio dei poveri togliendoli dalle grinfie della speculazione, della illegalità e della criminalità. San Paolo nella Lettera agli Ebrei (cap. 13) ricorda che "alcuni praticando l'ospitalità hanno accolto degli angeli senza saperlo". Centinaia di migliaia di famiglie italiane hanno trovato nelle badanti straniere un angelo che assiste gli anziani e gli pulisce (scusate il termine) il sedere.

Ma "Furore" è anche una parabola di speranza: che un giorno si possa avere un'Italia governata da persone della statura politica e morale di Roosevelt e di Tugwell, capace di praticare l'accoglienza e assicurare giusti salari e dare decenti abitazioni agli immigrati che contribuiscono alla nostra ricchezza, liberandoli dallo sfruttamento per miseri giacigli ad alto prezzo. Se non lo si vuol fare per amore cristiano, lo si faccia almeno ricordando che la paura di un popolo che non ha casa e non ha meta, genera, come ha raccontato Steinbeck, furore. 

Giorgio Nebbia



Come nasce la poesia Zen ?



Minagawa Shunzaemon, poeta famoso, cultore della rima e adepto dello Zen, sentì parlare di un celebre maestro, Ikkyu, che era a capo del Tempio di Daitoky-ji nella regione dei Campi viola. 

Volendo divenire suo discepolo, si recò a fargli visita. Iniziarono a dialogare all'ingresso del tempio.
" Chi sei?" chiese Ikkyu.
"Un buddista" rispose Minagawa.
"Da dove vieni?"
"Dalla tua terra....."
"Ah! E quali notizie mi rechi da quei luoghi?"
"I corvi gracchiano, i passeri cinguettano"
"E in che luogo ora ritieni di essere?"
" Nei Campi viola"
" Perchè?"
" I fiori, gloria del mattino....... aster, crisantemo, zafferano...."
" E qui in questo campo cosa accade?"
"Scorre il fiume, soffia il vento"


Stupito nell'udire queste parole che avevano un sapore di Zen, Ikkyu condusse l'ospite nella sua stanza e gli offrì il tè. 

Poi, improvvisò questi versi: Una vivanda raffinata vorrei ora servirti, ma aihmè, lo Zen non ha
nulla da offrire...


E Minagawa rispose:
"Lo spirito che nulla può offrire se non il nulla, è il vuoto
originario, vivanda raffinata fra tutte"


Profondamente commosso, il maestro concluse
"Molto hai appreso, figlio mio"