Per un'economia ecologica...




Spesso pensiamo che l'Europa sia più avanzata, sulle lotte ambientali. "Invece la maggior parte di queste battaglie avvengono nel Sud del mondo, e abbiamo tutto da imparare.


Là ci sono le proposte piu' costruttive dell'economia ecologica", diceva Joan Martinez Alier, dell'Università
autonoma di Barcellona, al convegno internazionale su "Economia ecologica e crisi" tenuto a Roma il 25 giugno 2009, organizzato dall'associazione A Sud e dal progetto europeo Civil Society Engagement with Ecological Economics (lunga sigla che significa "impegno della societa' civile con l'economia ecologica"), che lavora per superare il gap fra la ricerca accademica e la conoscenza delle organizzazioni della società civile sul campo - quindi per divulgare principi e pratiche dell'economia ecologica: e il primo e' che i flussi di energia e di materie prime devono decrescere nel post-sviluppo. 


Tuttavia, come ha detto Simron Jit Singh, indiano ricercatore in Austria, "l'India e' tuttora un'economia estrattiva, che ha già usato fin troppo il proprio capitale di risorse". E l'ha usato non per il consumo interno ma per l'export: "Ricava poco denaro con molto danno..".

Al tempo stesso proprio la "società in movimento", soprattutto nel Sud del mondo (Asia, Africa, Sudamerica) ha vinto diversi conflitti ambientali, ad esempio costringendo a sospendere decine di megaopere (dighe, fabbriche, miniere). Non solo: i poveri nelle campagne stanno dimostrando capacità di reazione e inventiva: Supriya Singh, del Center for Science and Environment di New Delhi, ha spiegato che "povertà e distruzione ambientale sono due lati dello stesso problema". Ma ha anche raccontato che intere regioni dell'India si sono mobilitate per gestire l'acqua in modo sostenibile, e con misure intelligenti e drastiche sono riusciti a ricostruire le risorse idriche e insieme l'agricoltura e la vita dei villaggi, nell'India rurale che è un'economia tutta basata sulle biomasse.


L'India è anche il paese del National Rural Employment Guarantee Act (Nrega), la legge che per ridurre la povertà rurale garantisce un minimo di cento giorni lavorativi pagati a ogni nucleo familiare: il programma prevede di usare questo lavoro per riforestare e creare cisterne per la raccolta dell'acqua. Il Cse intende applicare i metodi dell'economia ecologica per valutare i benefici sociali, economici e ambientali del Nrega in diversi distretti.

In America Latina l'uscita dall'economia fossile - insieme all'ingresso nell'economia della collaborazione fra stati e comunita' - ha contagiato perfino alcuni governi. Si pensi alla proposta governativa di moratoria dell'estrazione del petrolio nel parco nazionale Yasuni' (Ecuador). 

Perché "la vera soluzione alla crisi e' nella piccola produzione contadina e indigena e nell'economia locale, nei vincoli di solidarieta' nel tenersi ai margini da parte di certe comunità. I saperi indigeni hanno validità universale, possono aiutare anche altrove a uscire dalla crisi dell'egoismo, dello sfruttamento e del consumismo estremo", dice Omar Bonilla Martinez, della rete ecuadoriana Accion Ecologica. 

Le lotte del movimento antiminerario ecuadoriano con imponenti mobilitazioni recenti e future vedono in alleanza "i popoli indigeni che da sempre sostengono il buen vivir come idea e pratica di sviluppo armonioso e gli ecologisti urbani che condividendone la visione hanno dato loro forse una forma per esprimersi".

Marinella Correggia



Dal quotidiano "Il Manifesto" del 27 giugno 2009 col titolo "L'economia ecologica"

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Marinella Correggia  approfondirà questo tema  durante la tavola rotonda "Forum del lavoro bioregionale" che si tiene a Treia il 23 aprile 2016. Sarà presente anche Marica Di Pierri referente dell'associazione "A Sud" menzionata nell'articolo, che presenterà il suo libro "Riconversione: un'utopia concreta". 

Genocidio armeno e nascita del sionismo



Il 24 aprile 2016 ricorre il 101° anniversario del genocidio armeno, relativo a circa 1.500.000 cristiani armeni (cattolici e scismatici) sterminati dai Turchi. Di seguito  un articolo pubblicato  dal quotidiano israeliano “Haaretz”, relativo al ruolo che avrebbe avuto Theodor Herzl, padre del Sionismo, nella vicenda. 

Come Herzl liquidò gli armeni

Herzl sostenne il brutale sultano ottomano contro gli Armeni, credendo che questo inducesse il sultano a vendere la Palestina agli ebrei, di Rachel Elboim-Dror, Professoressa emerita di storia e cultura alla Hebrew University (“Haaretz” del 1/5/2015)

La questione armena ha interessato il movimento sionista sin da quando i turchi fecero un massacro di armeni alla metà degli anni 1890 – prima ancora del Primo Congresso Sionista. La strategia di Herzl si basava su un progetto di scambio: gli ebrei avrebbero pagato l’enorme debito dell’Impero Ottomano, e in cambio avrebbero ottenuto la Palestina e la possibilità di stabilirci uno stato ebraico, col consenso delle maggiori potenze. Herzl aveva cercato in ogni modo di persuadere il sultano Abdul Hamid II ad accettare, ma senza successo.

“Invece di offrire soldi al Sultano,” gli disse il suo agente diplomatico Philip Michael Nevlinski (che fece da consulente anche al sultano), “offrigli appoggio politico sulla questione armena e vedrai che accetterà la tua proposta, almeno in parte.” I paesi cristiani d’Europa avevano criticato l’assassinio dei cristiani armeni ad opera dei musulmani, comitati a sostegno degli armeni erano stati costituiti in vari paesi e l’Europa offriva anche rifugio ai leader della rivolta armena. Questa situazione rendeva assai difficile per la Turchia ottenere prestiti dalle banche europee.
Herzl seguì con entusiasmo il consiglio. Pensava fosse giusto tentare ogni strada per affrettare la nascita di uno stato ebraico. Acconsentì quindi a servire come strumento del Sultano e cercò di convincere i leader della rivolta armena che se si fossereo arresi al Sultano, questi avrebbe accolto alcune delle loro richieste. Herzl cercò anche di mostrare all’Occidente che la Turchia era anzi molto umana, che non aveva altra scelta che gestire in quel modo la rivolta armena, e che voleva la fine del conflitto e l’intesa politica. Dopo molti tentativi, il 17 maggio 1901 ebbe anche un incontro con il Sultano.

Il Sultano sperava che Herzl, giornalista famoso, sarebbe stato capace di mutare l’immagine negativa dell’Impero Ottomano. Quindi Herzl lanciò un’intensa campagna per soddisfare il desiderio del Sultano, presentando se stesso come un mediatore per la pace. Stabilì contatti ed ebbe incontri segreti con i ribelli armeni, nel tentativo di convincerli a cessare ogni violenza, ma i ribelli non si convinsero della sua sincerità e non credettero alle promesse del Sultano. Herzl tentò anche energicamente di usare per il suo disegno i canali diplomatici europei, che lui conosceva molto bene.
Come era nel suo carattere, non si consultò con altri leader del movimento sionista, e continuò ad agire in segreto. Tuttavia, occorrendogli un aiuto, scrisse a Max Nordau cercando di cooptarlo al suo progetto. Nordau rispose con un telegramma di una parola: “No”. Nella sua ansia di ottenere dai turchi la concessione della Palestina, Herzl dichiarò pubblicamente – quando l’annuale Congtresso Sionista era già iniziato – che il movimento sionista esprimeva la sua ammirazione e la sua gratitudine per il Sultano, sollevando le proteste di alcuni rappresentanti.

Il principale oppositore di Herzl su questa questione era Bernard Lazare, un intellettuale ebreo francese di sinstra, noto giornalista e critico letterario, che si era distinto nella battaglia contro il processo Dreyfus ed era un sostenitore della causa armena. Era così infuriato contro l’operato di Herzl che si dimise dal Comitato Sionista e abbandonò del tutto il movimento nel 1899. Lazare pubblicò una lettera aperta a Herzl in cui chiedeva: come è possibile che chi pretende di rappresentare un antico popolo la cui storia è scritta col sangue, offra una mano a degli assassini senza che nessun delegato del Congresso Sionista si levi a protestare?
Questo dramma che ha coinvolto Herzl – un leader che ha messo in secondo piano ogni considerazione umanitaria e si è posto al servizio del potere turco in nome dell’ideale di uno stato ebraico – è solo uno dei molti esempi di conflitto tra obiettivi politici e principi morali. Israele si è trovata più volte di fronte a simili tragici dilemmi, come dimostra la sua ormai annosa posizione di non riconoscre ufficialmente il genocidio armeno, così come da altre più recenti decisioni che riflettono la tensione esistente tra valori umanitari e considerazioni di realpolitik.



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Enigmi del passato e le colossali palle di pietra


Sfere di pietra del Costa Rica

In Costa Rica non è stato ancora svelato il mistero delle centinaia di sfere di pietra che da dimensioni ragguardevoli, da circa 3 metri di diametro, arrivano a meno di mezzo metro di diametro. Si suppone che siano state realizzate tra i 6 e i 10.000 anni fa da una misteriosa civiltà, ormai scomparsa. 

Alcuni ricercatori suppongono che queste sfere rappresentino una sezione della volta celeste. Ma non solo in America Centrale si sono trovate sfere di pietra, dalla Nuova Zelanda all’Africa, dalla Cina all’India, fino alla Sardegna (Monte D'Accoddi) ed ora di dimensioni considerevoli  anche in Bosnia, nel bosco di Podunvlje. Sicuramente anche questo reperto rappresenta il retaggio di misteriose civiltà scomparse. La perfezione di tali manufatti (sfere) dimostra che prima dei Sumeri, degli Egizi e dei Minoici sono esistite sul nostro pianeta civiltà evolute anche tecnologicamente e, per motivi che ancora non conosciamo, scomparse nel nulla. 

A proposito della sfera della Bosnia, i soliti saccenti o comunque negazionisti, hanno (ridete!!) affermato che quella sfera di pietra e ferro e tutte le altre finora scoperte, non sarebbero altro che il frutto di normali processi naturali…

Filippo Mariani


Palla di pietra e ferro trovata in Bosnia

Un vero Papa... quello dei Tarocchi



Una delle lamine più significative e cariche di significati dei Tarocchi  è  il numero 5 degli Arcani: Il Papa. Che rappresenta il punto di intersezione del braccio verticale della croce con quello orizzontale: dunque è un punto di svolta, il luogo in cui dalla dimensione orizzontale si passa a quella verticale, dal piano umano a quello divino. 

Un ponte, dunque: non per niente il Papa è chiamato pontifex (facitore di ponti) anche se, ahimè, anche di questa prerogativa se ne è appropriato il cristianesimo sgraffignando questo titolo nientemeno che agli imperatori romani, che se ne fregiavano come simbolo del loro ruolo di mediatori tra umano e divino.


In origine, nella sua etimologia indoeuropea il termine comunque indicava non un ponte , ma una via: quindi il "pontefice" era uno che apriva i cammini, che andava davanti al popolo: un precursore, perciò. Come questa figura ammantata di saggezza e ricca di significati, che naturalmente vanno ben oltre l'iconografia cristiana.


Vediamo innanzitutto in quest'uomo, senza dubbio un insegnante spirituale e, ripeto, bisogna sganciarsi dalla gabbia concettuale che rappresenti realmente un papa, perché il simbolismo dei tarocchi è universale, ma come in questo caso adotta immagini familiari alla cultura in seno alla quale questa antichissima scienza si è affermata, cioè quella occidentale giudeo-cristiana.

Studiando la lamina vediamo che egli si erge al di sopra e in posizione centrale tra due "discepoli" a cui sembra impartire un insegnamento; posizione che ritroviamo anche in altri Arcani: il Diavolo (proprio l'antipapa), L'innamorato, il Giudizio, La Torre (o Casa Dio), La Luna, Il Sole.


Come mai tante carte dei Tarocchi propongono questo tipo di prospettiva?


E' abbastanza chiaro che la figura centrale di ognuna di questa carte rappresenta il tratto di unione fra le due polarità opposte, il punto in cui esse si fondono e ritrovano l'Uno. Così abbiamo il Tre, che in tutte le culture sacre rappresenta il triangolo divino: maschile, femminile e neutro o punto di unione. Oppure Yin,Yang e Tai Chi. (cioè il simbolo del Tao,il glifo del cerchio che li comprende entrambi). Anche in questo caso vediamo che il cristianesimo,con la dottrina della Trinità, si è fatto bello con idee altrui, molto più antiche delle sue. 


Vediamo anche che la composizione così formata in ognuna delle carte assume in tal modo l'immagine di un pene eretto sui testicoli: questa non è una trovata grafica porno ante litteram, ma sappiamo che per esempio nell'induismo il "lingam" cioè il pene eretto di Shiva, era sacro in quanto simbolico dell'ideazione creatrice universale.


I due discepoli davanti al Papa sono chiaramente i due opposti, basta guardare anche alla loro tonsura: una ha un movimento rotatorio destrorso,l'altra sinistrorso.


Un'ultima annotazione va fatta per il numero 5: esso rappresenta la Quintessenza, cioè il quinto elemento alchemico risultante dalla fusione dei quattro elementi (Fuoco, Aria, Acqua, Terra) che sono sempre disposti in croce (il cui punto di intersezione,come abbiamo visto,è il Papa), fusione che però al tempo stesso è più della somma delle sue parti: l'argento vivo degli alchimisti, la "pietra" Trasmutativa.

Simon Smeraldo


Il mito di Saul Arpino e del suo Giornaletto

Paolo con Amma
Saul, viveva con sua madre in Cornovaglia, un dì trasecolò nella boscaglia dove incontrò Merlino che gli insegnò la magia della parola e dello scambio. L’apprendimento fu lungo e duraturo, alla fine riuscì a tirare fuori la spada dalla roccia, la comunicazione, con coraggio forza pazienza amore determinazione…
Intanto io frequentavo spesso quell’isola antropologica così attraente, come il miele per le api, le Mainarde al confine tra Abruzzo e Molise, Scapoli per le zampogne, i sanniti con le sacre sorgenti del fiume Volturno, l’abbazia di San Vincenzo distrutta dai saraceni nell’ottavo secolo. Moulin il pittore impressionista francese che aveva vissuto l’ultima parte della sua vita in una capanna su queste montagne, la bellezza naturale del luogo, il lago artificiale di San Vincenzo, con i bagni di fango nell’argilla, sulla riva e poi i tuffi nell’acqua fresca.
Così avevo conosciuto Alessandro, Barbara, Gigi ed Elena di Pizzone. Praticavo con frequenza queste rotte e quell’anno, era il 2007, ci incontrammo per il carnevale a Scapoli e mi dissero che stavano organizzando il 18,19 e 20 maggio l’incontro annuale della rete bioregionale italiana, al rifugio il Falco, pianoro delle forme, Pizzone (Isernia), nella bioregione Alta Valle del Volturno, così arrivai a Valle Fiorita il 18 maggio. Convivenza socializzazione, i volti man mano acquistavano profondità nei giorni della comunanza. Avevo conosciuto Mario Cecchi degli Elfi, Massimo Angelini di Minima Ruralia, Stefano Panzarasa dei Monti Lucreti, Felice del Seminasogni, Francesco d’Ingiullo bioniere di Palmoli, Etan Addey del Pratale di Gubbio, un poeta inglese, una performer coreana, Giuseppe Moretti di Lato Selvatico e tanti altri che non ricordo. Un giorno un Omo disse a un’Ava: “cara facciamo un bel fustino”, questo per dire che uno più uno fa sempre uno ma certe volte fa pure tre. Tra cerchi sospesi non nel vuoto ma nel verde più pazzesco che abbia mai visto. Immaginate maggio in un posto che si chiama Valle Fiorita, ho detto tutto! Cerchi di una intensità unica, poesia allo stato puro, la liquidità dell’essere nell’assoluto in un luogo veramente magico, sembrava di rivivere le scene del film il Pianeta Verde, per i colori degli abiti, le ambientazioni e le situazioni. Un giorno, mentre ero seduto su un grande masso, con una lunga tonaca chiara apparve lui aveva disceso direttamente le scale dell’immensità e dell’intensità dell’ascolto: calmo pacato presente consapevole. Scattai una foto di quell’attimo, ancora riesco a ritrovarla ma solo nell’enorme bagaglio della mia memoria. Come due candele, attratti luno dall’altro cominciammo a parlare, mi raccontò di Calcata delle cose che vi si svolgevano, scoprimmo proprio in quel frangente che due candele una vicino all’altra fanno una grande luce ma si consumano più velocemente, allora ci allontanammo un po’ e continuammo a parlare a lungo facendo ugualmente una grande e bella luce.
Tanti anni dopo non so come ho ricevuto una mail una specie di articolo di un blog: Bioregionalismo Treia, in cui si parlava di agricoltura naturale. Interessato e riconoscendo nel nome quel tal Saul che avevo conosciuto a Pizzone avevo mandato alcuni miei scritti ricevendo questa risposta: “io questa roba non la apro!”. Spaventato mi chiesi: “che cosa gli ho mandato una bomba!?”. Scoprii tempo dopo, non so perché, non apriva i pdf. Comunque iniziammo a relazionarci e ne è nata una amicizia telematica, che ancora dura.
Poi ho scoperto “Il Giornaletto di Saul”, pagina di presentazione, sorta di scatola contenitore di sette cassetti o link, per gli approfondimenti, la pagina principale rappresenta anche l’ottavo elemento che amalgama e mette in relazione tutti gli altri link:
Il Giornaletto di Saul: http://saul-arpino.blogspot.it/
Circolo vegetariano VV.TT. Treia:
https://circolovegetarianotreia.wordpress.com/
Circolo vegetariano VV.TT. Calcata:
http://www.circolovegetarianocalcata.it/
La rete delle reti: http://retedellereti.blogspot.it/
Altra Calcata… altro mondo: http://altracalcata-altromondo.blogspot.it/
(ed occasionalmente anche:
Rete Bioregionale: http://retebioregionale.ilcannocchiale.it/
Riconoscersi in ciò che è: http://www.aamterranuova.it/Blog/Riconoscersi-in-cio-che-e)
Il Giornaletto di Saul si apre ogni giorno sempre con la stessa didascalia di presentazione e la foto di un ragazzotto con maglia a strisce che racconta di sé. Segue la foto o immagine del giorno e l’editoriale giornaliero, di seguito le notizie del diario di bordo per la navigazione nel quotidiano. Infine si chiude con un saluto che può essere una poesia un aforisma a volte un paradosso.
Saul Arpino
Ma chi questo Saul Arpino, esiste veramente? Nessuno sa da dove è arrivato, come è arrivato, quando è arrivato. Si sa solo che è arrivato a Roma in un caldo pomeriggio d’estate di fine giugno. Caldo decadente nella Roma decadente del pre (o post) materialismo televisivo.
Questa è cosa buona (mentre per fare le correzioni il cavolfiore messo a cuocere si è bruciato, ma non completamente, per fortuna)!
In quella grande biblioteca romana, Saul non ci poteva credere di avere a disposizione tutti quei libri che poteva leggere quando voleva, gli impegni lavorativi erano relativi visto che si trattava solo di controllare i lettori e far rispettare il silenzio nelle varie sale. E da lì aveva iniziato a viaggiare nel mondo attraverso i libri, era andato diverse volte in Africa, poi in India dove si era fermato parecchio tempo a studiare le varie culture, si era appassionato di Confucio il Tao e Lao Tsu. Aveva girato un po l’Europa l’Italia e anche Roma, la cultura classica la religione la storia, l’arte, ecc.
Sora Cesita che legge
Un giorno, nella biblioteca, entrò quella strana signora con gli occhiali spessi un dito, uno strano cappello a fiori fuori moda, aveva chiesto un libro sui funghi. Lui si prodigò e le procurò dei testi scientifici, libri di fiabe e tanti altri libri in cui si parlava dei funghi. Quella signora di nome Cesira era rimasta tutto il giorno a leggere silenziosa in disparte, composta concentrata e indaffarata, alla sera riconsegnò tutti i libri che aveva consultato e uscendo disse: “Da tutti questi libri, non sono riuscita a capire se con i funghi ci va l’aglio o la cipolla”.
Saul tornò a casa ma da quel giorno non fu più tranquillo, la sua vita era cambiata quel paradosso lo aveva sconvolto. E tra l’apprensione generale di amici e parenti aveva lasciato il lavoro e se ne era andato a vivere in un piccolo borgo della Tuscia, scavato nel tufo nella pietra, Calcata. Era rimasto lì parecchi anni cercando di risolvere il paradosso, Mangiava spesso funghi e le erbe che raccoglieva nei dintorni alternando sempre aglio e cipolla. Ancora non riusciva a risolvere il paradosso, diveniva sempre più integralista bioniere e anticonsumista, non usava più l’acqua corrente e non aveva la corrente elettrica viveva in una specie di antro, l’antro di Saul.
Paolo D'Arpini a Calcata
Un giorno all’improvviso sopraggiunse l’illuminazione, aveva scoperto contemporaneamente che con i funghi ci stavano bene sia l’aglio che la cipolla e ancor più assurdo aveva scoperto soprattutto che i funghi non gli piacevano affatto. Aveva poi letto quella strana cosa degli Hare Krishna, che non mangiano i funghi perché secondo loro la terra attraverso i funghi tira fuori energie negative. Felice della scoperta iniziò la nuova vita da illuminato. Dopo un po’ di tempo ricevette anche un dono dal Cielo: Caterina. Si era materializzata davanti ai suoi occhi in un luminoso giorno di mezza estate. Alla fine andarono a vivere felici e contenti a Treia nella bioregione della Marca centrale.
Saul portò con sé tutti i suoi semi telematici che iniziò a spargere nella grande campagna virtuale, per chi volesse coltivarli e condividerli nella grande opera tutt’ora in atto di empatia, social gardening, giardinaggio sociale e di margine, coltivazione di persone e relazioni.
Una delle più grandi opere della telematica contemporanea virtuale e non solo. Come un grande tappeto di riciclaggio della memoria che si srotola quotidianamente davanti ai nostri occhi e con che piacere!
Ecco nelle fiabe ci si dice che superate le prove dell’indistinto e del quotidiano si vive felici e contenti.
Saul e Caterina nella loro fiaba ci indicano la via e spiegano realmente come si fa a vivere felici e contenti.
Paolo e Caterina nell'orto di Treia
Ogni tanto i ricordi affiorano dal grande lago della memoria. quando ero piccolo un po’ per le illustrazioni delle fiabe che leggevo un po’ per la mia immaginazione ero molto affascinato dalla vita nei borghi che ambientavo in un medioevo fantastico un po’ lirico un po’ rurale. Crescendo la mia immaginazione si è sedimentata nei borghi antichi delle Marche. Sento che Saul è un uomo fortunato anche se spesso la vita insegna che le cose non sono mai come sembrano. Quest’Omino Bianco con la sua Ava si è barricato, bariccato, abbarbicato in questo piccolo borgo della Marca centrale o nel gotico marchigiano contemporaneo con tutti i suoi semi telematici che sparge e disperde nel vento facendo fiorire il cielo virtuale e virtuoso, con una sapienza costruttiva carica e piena di energia vitale impressa ed espressa con la forza della pazienza e dell’amore.
Come diciamo spesso tiriamo i sogni fuori dal cassetto, Saul ne tiene sette di cassetti (ed anche qualcun altro) in questo suo enorme settimino, grande contenitore di sogni di ogni dove e di ogni quando, dal profumo suadente di polvere di cioccolato e cannella sul cappuccino caldo del baretto di Treia.
Sebastian (Alias Ferdinando Renzetti)

La distruzione di Dresda, nel racconto di un sopravvissuto



Come le guardie carcerarie e la popolazione cittadina, Gregg non credeva che la città sarebbe stata bombardata; era diffuso il convincimento che gli Alleati avrebbero risparmiato il suo retaggio culturale, così come i tedeschi si erano trattenuti dall’attaccare Oxford. Ma era una supposizione infondata. Gregg  dovette essere testimone di una carneficina inimmaginabile che gli causò un persistente stress post traumatico. Sebbene egli fosse un patriota per niente pacifista, settant’anni dopo quell’evento è ancora convinto che coloro i quali ordinarono i tre giorni di bombardamenti su Dresda dovrebbero essere ritenuti colpevoli di un crimine di guerra, in quanto consapevoli della devastazione che sarebbe stata inflitta alla popolazione civile.

Dopo il raid, egli infine raggiunse le linee russe avanzanti. Questo è il suo resoconto della tempesta di fuoco.

Alle dieci e trenta circa di sera, le sirene si misero a suonare; poiché ciò accadeva ogni notte non vi si prestò attenzione. Ma dopo un breve periodo di silenzio, un’ondata di ricognitori cominciò a sganciare bengala. Li vedemmo attraverso una cupola di vetro: riempivano il cielo di luce accecante, fluttuavano verso terra, gocciolando fosforo incandescente sulle strade e le case.
Come in una sequenza al ralenti, i detenuti nella prigione cominciarono a rendersi conto di essere in trappola (le guardie avevano chiuso le porte e se l’erano data a gambe). Poi, il rombo di centinaia di bombardieri pesanti prese a saturare l’aria, facendosi sempre più vicino e assordante. I prigionieri battevano sulle porte delle celle supplicando che li si lasciasse uscire. Mi accovacciai accanto a una parete, più in basso che potevo. I bengala ancora cadevano quando la prima formazione ci sorvolò, sganciando migliaia di ordigni incendiari insieme alle prime bombe. Una serie [di incendiarie, ndr] colpiva il suolo in successione, come un rullo di tamburo, e il cielo passava da un bianco brillante a un rosso cupo che lampeggiava prima di spegnersi.
Quando l’interminabile formazione ci superò, quasi quattro incendiarie sfondarono il soffitto in vetro, riducendolo in pezzi e facendo a brandelli gli sfortunati che si trovavano di sotto. Il fosforo aderì ai corpi dei feriti, trasformandoli in torce umane, ma fu impossibile estinguere le fiamme e le loro urla si aggiunsero alle altre grida. Io ero ancora indenne – ma non lo sarei rimasto per molto.
All’improvviso, una “blockbuster” cadde all’esterno del nostro palazzo, abbattendo la cinta muraria (questi massicci ordigni dal rivestimento sottile potevano demolire interi isolati, di qui il nome). Fui scagliato dall’esplosione  a diversi metri di distanza  e ricoperto di calcinacci. Quando mi riebbi, realizzai che il fumo e le esalazioni provenienti dal guscio in fiamme dell’edificio venivano spazzati via da un vento che si andava gradualmente rinforzando. Incespicando fra le macerie, uscii all’aria aperta, fuori dall’edificio che stava lentamente collassando. Qui m’imbattei in pochi altri superstiti, e la prima cosa che mi colpì fu il calore. Ovunque mi volgessi, scorgevo fiamme, fumo e cenere –e dal cielo cadevano continuamente detriti. All’incirca una dozzina di individui nel nostro gruppo erano in grado di camminare o reggersi in piedi, e altri piccoli gruppi si spostavano fra i cumuli di macerie e le fiamme che, senza preavviso, sprizzavano dalle brecce nei muri.

.Dresden, a Survivor’s Story
Il rombo degli apparecchi si attenuò e la gente cominciò ad uscire dalle poche abitazioni rimaste in piedi. I sopravvissuti si aprivano la strada fra i mucchi di rovine che un’ora prima erano stati le loro case. Barcollammo lungo ciò che restava di un ampio viale, fiancheggiato da incendi e montagne di macerie roventi (fui salvato dalle suole di legno delle mie calzature, così spesse da permettermi di camminare sulle ceneri infuocate). Infine giungemmo in campo aperto, nei pressi della linea ferroviaria. In cerca di salvezza, vedemmo un altro gruppo avvicinarsi: si trattava di due dozzine di vigili del fuoco, con un carro pieno di picconi, badili, secchi, funi arrotolate e bidoni d’acqua potabile. Il capo ci mise subito in riga, scelse quelli che parevano idonei e ci fece mettere in marcia, lasciando i feriti a badare a sé stessi.
Non tutti gradivano di essere consegnati come combustibile alla fornace distante meno di 500 metri. Ma quando tre uomini esitarono, il nostro capo si girò, estrasse la pistola e sparò a due di loro a bruciapelo (il terzo si mise a correre più forte che poté). Ed eccoci lì, in una trentina, guidati da un tedesco la cui soluzione ai problemi consisteva nel prima sparare, poi porre domande.
Da principio trovammo persone che erano state sorprese all’aperto ed erano ancora vive. Fissando pezzi di legno ai picconi e ai badili, costruimmo delle barelle e li trasportammo via. Ma dopo due ore, ritornammo alla ferrovia dove scoprimmo dei rinforzi e un vagone carico di cibo che era stato inviato in qualche modo da Dio sa dove. Poi le sirene lanciarono di nuovo il loro terribile urlo  e le persone si strinsero in piccoli gruppi, quasi a volersi far scudo dall’attacco le une con le altre.
Gli aerei volavano a migliaia di piedi sopra di noi, ma si potevano scorgere i loro contorni  stagliarsi nel bagliore. Le nuove bombe erano talmente grandi da poterle vedere nel cielo. Persino le incendiarie erano differenti – non cilindri lunghi un metro, ma ordigni da quattro tonnellate che esplodevano nell’impatto al suolo, incenerendo ogni cosa nel raggio di sessanta metri – e insieme a questi caddero altre blockbuster, questa volta da dieci tonnellate.
Appena cinquecento metri di terreno aperto ci separavano dall’epicentro del primo raid. Potevamo avvertire il calore tremendo, i nostri corpi erano scossi mentre il suolo vibrava. E come se ciò non bastasse, un altro orrore fece sentire la sua presenza: non esattamente quel che si potrebbe definire vento, piuttosto, l’aria veniva aspirata ad alimentare l’inferno come se fosse un oggetto solido, talmente immensa era la sua forza.
Il secondo raid si stava svolgendo da quindici minuti quando il suolo eruttò in enormi nubi di fumo e fiamme, e immediatamente dopo le esplosioni, venne quella tremenda aspirazione allorché l’aria affluì nel vuoto creatosi. Ma il nostro capo sembrava impaziente di riportarci nella fornace una volta che i bombardieri se ne fossero andati, cosa che fecero trenta minuti più tardi. Anche se erano rimasti dei ritardatari in cielo, ora era l’azione sul terreno a contare. Tutto bruciava, persino le strade, che erano fiumi ardenti di bitume ribollente e sibilante. Grossi detriti volavano nell’aria, risucchiati nel vortice. Potevamo vedere persone strappate a qualsiasi cosa fossero aggrappate e aspirate nel globo rosso fuoco in costante espansione a meno di duecento metri da noi. Un piccolo gruppo cercò di raggiungerci attraversando quella che un tempo era stata una strada, solo per ritrovarsi intrappolato in un impasto di catrame disciolto ribollente. Uno ad uno, caddero al suolo esausti e morirono nel rogo, tra il fumo e le fiamme. Individui di tutte le taglie, d’ogni età e costituzione furono lentamente risucchiati nel vortice, quindi gettati di colpo nelle colonne di fumo e fuoco, coi vestiti e i capelli in fiamme.
E come se il Diavolo in persona avesse deciso che i loro tormenti non erano sufficienti, sopra l’ululato del vento e il ruggito dell’inferno di fuoco, risuonavano le interminabili grida d’agonia delle vittime che arrostivano vive.

Ciò che ci salvò fu il fatto di trovarci in uno spazio aperto con ossigeno da respirare. Siccome gli incendi stavano peggiorando, abbandonammo – per il momento – ogni idea di avvicinarci al centro cittadino. Era un mare di fiamme che salivano verso un cielo denso di fumo. E mentre l’aria si faceva così rovente che inalarla provocava dolore, ci ritirammo in un luogo sicuro. All’alba, vedemmo che altri gruppi erano sopraggiunti per colmare i crateri e riposizionare i binari, ed entro metà mattina un piccolo convoglio di vagoni ci passò accanto.  Dovemmo consegnarne il carico ai crucchi: la prima cosa cui pensarono fu di riempirsi lo stomaco, e in mezzo c’era un vagone-cucina, con tanto di minestra calda, pane nero e un fusto da quaranta galloni del loro surrogato di caffè.

Dopo aver mangiato, circa 40 di noi arrancarono fra le braci sobbollenti che bordavano l’immenso rogo che ancora infuriava dappresso. Mentre altri gruppi scavavano fra i cumuli di mattoni, aprendo passaggi, noi fummo incaricati di individuare le cantine. Ma proprio allora cominciò il terzo raid. Ora era il turno degli americani, e le aree prospicienti alla linea ferroviaria erano i loro obiettivi. Ciò fece si che quelli che erano riusciti a fuggire in precedenza ricevessero ora il medesimo trattamento. E sebbene gli americani sganciassero bombe molto meno distruttive dei britannici, molti di più furono uccisi.

Quando l’incursione finì, continuammo con le cantine, forzandone gli ingressi con picconi e palanchini. All’interno, rinvenimmo i  cadaveri delle vittime, di solito rattrappiti sino a ridursi alla metà delle proprie dimensioni o peggio (i corpi dei bambini sino a quattro anni si erano semplicemente fusi). Molti però sembravano essere morti tranquillamente, per mancanza d’ossigeno, perdendo conoscenza.

Trascinammo i loro resti all’aperto, dove furono esaminati per l’identificazione e in seguito impilati in attesa della cremazione – e questa doveva rivelarsi la parte più facile. Persino i più duri fra noi vacillarono quando raggiungemmo l’epicentro del raid, in cui gli incendi più feroci avevano imperversato. Prima però ci diedero da mangiare a da bere, e potemmo riposarci in un paio di vecchie carrozze ferroviarie che gigantesche gru avevano sollevato fuori dai binari.
Il terzo giorno, ovunque guardassi vedevo gruppi di una dozzina di uomini al lavoro;  e fu quando raggiungemmo il centro storico che cominciò il compito più terribile.

Alcuni dei cadaveri erano  così friabili che si sbriciolavano in nubi di cenere e carne disseccata. Eppure i tedeschi erano così metodici da ordinarci di collocare in sacchi qualsivoglia frammento identificabile di questi cadaveri. Ci chiedevamo se il successivo giorno di lavoro potesse mai rivelarsi peggiore. Ma quando ci veniva ordinato di passare al setaccio un settore dove c’era la possibilità di trovare dei sopravvissuti, la notizia ridava nuova vita al gruppo.

Fummo assegnati a un piccolo piazzale; dove prima cresceva l’erba ora c’era un tappeto di cenere e i primi tre rifugi che scoperchiammo erano vuoti. Ulteriori ricerche all’interno del terzo, tuttavia, rivelarono l’esistenza di un tunnel, ostruito da un soffitto crollato, che conduceva a un altro rifugio. Quando aprimmo una breccia e trovammo quattro donne e due ragazzine vive,  esultammo. Ci sentivamo come eroi – non c’erano nemici né odio, solo un senso di soddisfazione.  Purtroppo però, questo fu un episodio isolato, come scoprimmo nei giorni seguenti.

Arrancando lungo strade in cui lingue di fiamma sprizzavano ancora sin quasi a cento metri d’altezza, giungemmo all’ingresso di un rifugio pubblico, che impiegammo tutto il pomeriggio ad aprire. Al primo spiraglio, udimmo un suono sibilante e la polvere circostante fu risucchiata nell’apertura. Poi, non appena la breccia fu ampliata, fummo colpiti da un lezzo terribile – e pian piano l’orrore che giaceva all’interno si manifestò.

Non c’erano veri e propri cadaveri integri, solo ossa e brandelli di indumenti bruciacchiati sul pavimento, appiccicati insieme da una sorta di gelatina. Ora capimmo quel che avremmo potuto trovare nei rifugi del centro. Io però non ero destinato a questo. Quella sera, mi fu detto che sarei dovuto tornare in prigione – così mi allontanai alla chetichella, attraversai il ponte e mi diressi verso est per raggiungere i russi.

Ho omesso parecchie cose. Spesso, sono colto da vaghe reminiscenze di cui nulla poi rimane. Tutto è stato sopraffatto dai compiti raccapriccianti che eseguimmo. E’ l’orrore ad essere rimasto impresso nella mia memoria. E come gli incendi di Dresda, sembra impossibile da spegnere.

Victor Gregg, “Dresden, a Survivor’s Story”.