Il grande mistero del maschile - femminile



Il matriarcato, quale fenomeno antecedente al patriarcato, e il lento
passaggio dal primo al secondo sono semplici ipotesi. Anche ammesso
che siano esistite società matriarcali, bisogna considerare come ciò
potesse significare semplicemente che le donne si dedicavano al
Manifesto (i Piccoli Misteri, includenti la ricerca scientifica),
mentre invece gli uomini si dedicavano ai Misteri metafisici.

A tutt’oggi nelle campagne dell’India ogni villaggio venera una murti
particolare della Madre, sullo sfondo dei grandi Misteri non
dualistici di matrice shivaita o vedantica. Scrive Ananda K.
Coomaraswamy nel suo celebre studio “Induismo e Buddhismo”: “Se
consideriamo le due parti dell’Unità originariamente indivisa, vediamo
che queste possono essere intese in diversi modi: per esempio, dal
punto di vista politico, corrispondono al Sacerdotium e al Regnum;
sotto l’aspetto psicologico, possono essere considerate come il Sé e
il Non-Sé, l’Uomo interiore e l’individualità esteriore, il Maschio e
la Femmina. [...] La distinzione delle funzioni in termini di sesso
definisce la gerarchia. Soltanto Dio è maschile rispetto a tutto. Ne
consegue che, così come Mitra è maschile rispetto a Varuna e Varuna è
maschile rispetto alla Terra, analogamente il sacerdote è maschile
rispetto al re e il re è maschile rispetto al suo reame. [...] In
tutti questi rapporti, è il principio noetico a sanzionare o a
prescrivere quanto è necessario all’armonia. Il disordine fa la sua
comparsa quando l’elemento subordinato viene meno alla sua normale
funzione, soggiacendo alla tirannia delle proprie passioni, anche se
scambia ciò per libertà”.

E ancora: “La sottomissione dell’Uomo Esteriore all’Uomo Interiore è
esattamente ciò che si intende per padronanza di se stessi e per
autonomia, il cui contrario è l’arroganza. [...] Questo matrimonio
sacro, consumato nel Cuore, adombra il più profondo dei misteri: la
nostra morte è nello stesso tempo la nostra resurrezione beatifica.
[...] Quando ognuno è entrambi, non sussiste più nessuna relazione.
[...] Tutto ciò implica che quello che chiamiamo il processo del mondo
e una creazione sia soltanto un gioco che lo Spirito gioca con se
stesso”.

Evidentemente, Coomaraswamy espone in modo autorevole una chiave di
lettura della questione maschile-femminile diversa dalla tua.

Anche la tua ricostruzione del mito riguardante la nascita di Ganesh
mi sembra peccare di arbitrarietà. Tra le numerose versioni del mito,
ne hai scelta una, ritoccandola ad usum delphini e raccontandola come
se fosse la più valida se non l’unica. In realtà Ganesh, nella
versione da te citata, pretende di sbarrare il passo a Shiva per la
semplice ragione che non lo riconosce; come conseguenza di ciò gli
viene tagliata la testa. In un’altra versione, è Shiva stesso che crea
Ganesh da un pezzo di stoffa o direttamente con la sua mente. In
nessuna versione, tra quelle da me lette, si dice che Ganesha avesse
il potere reale di interporsi tra Mahadeva e Parvati, né che avesse la
forza di sconfiggere Shiva.

Non è escluso, inoltre, che la visione evolutiva – oggi tanto in auge
– e la pretesa di estendere a tutti la propria verità risentano
dell’influsso di quel Cristianesimo a-metafisico (c’è anche, ben
nascosto, un Cristianesimo metafisico) da cui sono derivati
l’agnosticismo e il materialismo; la prima mi pare altresì contraria
alla visione tradizionale orientale, per la quale in termini
cosmogonici la presente umanità (la settima) sarebbe ormai agli
sgoccioli, ovvero nel crepuscolo dell’Era finale in cui si consumerà
il pralaya, la distruzione. Benché i Purana sostengano che un certo
stile di vita in armonia col Dharma potrà forse rimandare il momento
del pralaya o che addirittura permetterà ad alcuni di costituire il
nucleo da cui risorgerà la prossima umanità, essi concordano
all’unanimità nel ritenere che gli uomini attuali siano giunti al
grado massimo di degenerazione e stupidità. Significativamente, gli
autori indiani che hanno parlato e parlano di “evoluzionismo della
specie” sono stati tutti educati o influenzati dall’Occidente moderno.
In ogni caso la Liberazione dall’ignoranza-avidya rimane sempre a
portata di mano, purché vi si aspiri sinceramente.

Raphael  nota in una sua bella Prefazione alla Bhagavad-gita:

«D’altra parte, se la vera Rivoluzione (metánoia) per i più non può attuarsi, allora si lasci che il ciclo si volga inesorabilmente al tramonto perché da una
“catastrofe” imposta dal “Cielo” non può non rinascere un’epoca
purificata ed illuminata. Dopo il tramonto vi è sempre l’alba, e
l’umanità non è la prima volta che subisce questa alternanza di
tenebra-Luce. Chi è fisso nel Principio che è e non diviene non ha
nulla da temere; di là da ogni sentimentalismo borghese vi sono
necessità cosmiche che sanno rimediare alla cecità di enti che hanno
preferito la tenebra alla Luce, la morte all’Immortalità, il non
essere all’Essere».

Secondo il punto di vista della cosmogonia Samkhya (uno tra i sei
darshana ortodossi della Tradizione indiana), il cosmo è costituito da
venticinque categorie o tattva, delle quali le prime due sono Purusha
e Prakriti; Purusha è il principio maschile, il portatore di “forma”
che con la sua sola presenza provoca l’attività di Prakriti; Prakriti
è la sostanza primordiale, la materia-energia informale,
indifferenziata, passiva, femminile. Sulla base di questo breve cenno,
si può intuitivamente comprendere come mai, presso tutti i popoli
tradizionali dell’area indoeuropea, fosse e sia di fondamentale
importanza sapere con certezza l’identità del padre; questi, infatti,
è portatore del Principio, della “forma”, nel senso di essenza, che
non potrebbe manifestarsi senza la disponibilità e l’apertura
incondizionata della madre. Al riguardo val la pena osservare come la
tendenza contemporanea di rifiutare il valore della figura paterna si
inscriva in un più ampio e integrale movimento di impoverimento e di
annichilimento della realtà umana, le cui conseguenze nefaste sono
sotto gli occhi di chiunque voglia vedere.


Il sistema Samkhya (che costituisce l’ossatura della cosmogonia Hindu)
sembra attribuire al principio del Purusha una sorta di preminenza
ontologica rispetto al principio della Prakriti. Nell’Introduzione
alle Samkhyakarika di Ishvarakrishna, Raniero Gnoli equipara il
Purusha alla realtà assoluta e la Prakriti alla realtà relativa,
sottolineando però come non si possa fare a meno di servirsi della
realtà fenomenica per svelare la realtà ineffabile.

L’idea che dal Vuoto-Pieno emerga il Principio Ishvara, l’Arché, e da
questo sorgano in contemporanea due principi di pari dignità e valore
non è in genere riconosciuta dalla Tradizione del Sanatana-dharma. Per
esempio, nella Prashna Upanishad si sostiene esplicitamente che dal
Brahman emana il Sole, il divoratore del cibo, da questo la Luna, il
cibo, e dalla Luna la molteplicità degli esseri. Si tratta pertanto di
un’emanazione di natura gerarchica indicante pure il percorso di
reintegrazione dell’individualità nell’Essere: dalla condizione umana
al mondo della Luna o degli Antenati, da questo al Mondo del Sole o
degli Dei, dal Sole a Ishvara, o punto di congiunzione tra il
Manifesto e l’Immanifesto e da questo all’Assoluto, al senza
Principio.

Tale manifestazione scalare dei princìpi la si ravvisa pure nella
rivelazione biblica: da Adamo, l’uomo primordiale, di natura
androgina, Dio estrae la donna, il principio femminile. Agli inizi del
processo generativo abbiamo dunque una sorta di incesto: la figlia,
emanata dal padre, si unisce al medesimo. In modo pressoché identico
si svolge il mito vedico della creazione: Prajapati, l’uomo
universale, prima ipostasi divina, genera Ushas, l’Aurora, alla quale
in seguito si unisce per dare il via alla molteplicità degli esseri.
Tale unione viene sia favorita che osteggiata da Rudra Shiva, nella
sua forma di Sharva, l’Arciere selvaggio, il quale, mentre tenta di
proteggere l’Increato, che egli più di ogni altro dio rappresenta,
suscita contraddittoriamente il desiderio erotico in Prajapati. Alle
radici dell’esistenza vi è dunque una contraddizione irrisolvibile
razionalmente. Il mito indiano sembra volerci dire che, distaccandosi
dalla perfezione dello stato incondizionato, la creazione è imperfetta
sin dall’origine. A ciò posero però riparo gli Dei, modellando coi
mantra Vastoshpati, il Custode e Protettore dell’ordine sacro.

Quantunque i modelli cosmogonici delle diverse tradizioni presentino
delle costanti, si prestano a plurime interpretazioni. Nella Teogonia
di Esiodo, le tre Potenze principiali sono Cháos, Gea ed Eros; qui
però è Gea, la madre Terra, che emana il proprio figlio-sposo, Urano,
il cielo stellato. Anche in India abbiamo un culto assai diffuso,
detto Shakta, il quale identifica il Principio attivo dell’esistenza
nella Shakti, la potenza o energia femminile. Tuttavia, pure in tale
lignaggio l’impianto dottrinale e il rapporto gerarchico tra
Immanifesto e Manifesto, Essere e divenire permangono.

Studi accurati hanno rilevato come le differenziazioni gerarchiche non
valgano solo per le categorie diacroniche appartenenti alla dimensione
verticale – alto-basso, davanti-dietro –, ma anche per quelle
sincroniche – destra-sinistra, maschio-femmina, dispari-pari –
inerenti la dimensione orizzontale; mentre per le prime è facile
identificarne le ragioni a livello fisiologico umano (la testa sta in
alto e quindi l’alto è più importante del basso), per le seconde (in
cui vige quasi universalmente il destrismo) si deve parlare come di un
“assioma”, ovvero di una verità che esiste a priori, indimostrabile.
In ambito scientifico non si è riusciti a trovare spiegazioni
accettabili a tali fenomeni di preminenza di un polo sull’altro, ma le
varie tradizioni li giustificano attraverso i miti dell’origine che si
riferiscono al passaggio da uno stato pre-cosmogonico (Unità) ad uno
cosmogonico (Molteplicità); cfr. Silvio Curletto, La norma e il suo
rovescio, cap. I, Ge 1990.

Quanto sopra dimostra in modo incontrovertibile la natura violenta
dell’egualitarismo che, opponendosi alla realtà, nega le differenze e
rifiuta le gerarchie. «Ecco che allora l’egualitarismo diventa
assassino. Si pretende di rendere uguali tutti i popoli, ma unicamente
secondo il modello dell’europeo medio, pseudocristiano. Nessuno si
sogna di mettersi allo stesso livello dei Pigmei, dei Santal
dell’India, delle tribù indie dell’Amazzonia» (Alain Daniélou, La Via
del Labirinto, p. 327). Perseguire l’equilibrio non ha nulla a che
vedere con l’imposizione artificiosa dell’uguaglianza; la ricerca
dell’armonia non può essere racchiusa in un’ideologia o in un dogma
dati una volta per tutte, ma scaturisce da un’attenzione costante,
ritmica, radicata nell’Origine o nell’Archetipo eternamente presenti.

Secondo lo Shivaismo triadico del Kashmir (che a me pare tra le
dottrine più interessanti), la Shakti è la Forza-Vibrazione per mezzo
della quale l’Assoluto (Anuttara, il Senza Superiore) prende coscienza
di Sé. Shiva, Shakti e la Molteplicità convergerebbero dunque
all’unisono in Paramashiva.

La critica alla “verginità” della Madonna non tiene conto di come
essa rimandi alla qualità della Prakriti di generare pur senza
diminuire mai, rimanendo integra. Quale mistero!

Alla luce di quanto sovra esposto, non mi sembra saggio ridurre la
questione maschile-femminile entro schemi semplicistici. Essa è a mio
avviso ben più complessa e sfumata e richiede di essere affrontata non
solo razionalmente o dottrinalmente in modo approfondito, ma anche e
soprattutto sub specie interioritatis. Persino la studiosa Evy J.
Haland (da me recentemente recensita) si spazientisce quando le viene
riproposta l’opposizione patriarcato-matriarcato, poiché ella dichiara
di non credere che la religione mediterranea sia matriarcale o
patriarcale o che prima ci fu il matriarcato e in seguito il
patriarcato.


Spero di essere riuscito a portare un contributo sia pur minimo alla
discussione.

Subramanyam




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