L'anello mancante - Fine del giudaismo messianico ed inizio del cristianesimo

Foto di Gustavo Piccinini

Il variegato universo giudaico del I secolo, nel quale vennero a confluire le diverse correnti dell’ebraismo, visse anni di grande fermento nel periodo compreso tra la fine del messianismo di tipo davidico, conclusosi con la morte di tutti i figli di Giuda il Galileo, e la distruzione di Gerusalemme e del tempio appena seguite dalla rivolta di Masada, nella quale morì il “resuscitato” Lazzaro (ultimo discendente di Giuda il Galileo), e dalla lapidazione del messia Yeshua nei primi anni dell’ottavo decennio d.c.

Sono gli anni nei quali si consumò il “canto del cigno” di un’attesa spasmodica e disperata che, dopo il fallimento della croce, partorì nuovi messia e nuovi inutili sogni di riscatto (fedelmente registrati negli scritti di Giuseppe Flavio).
La distruzione di Gerusalemme e del tempio fu un colpo terribile per l’intero mondo ebraico.
Il tempio era per il popolo il cuore della nazione più di quanto non fosse la stessa terra.
Si poteva essere ebreo a pieno titolo risiedendo ovunque ma riconoscendosi sempre nella realtà sinagogale (in generale) e nel tempio di Gerusalemme (in particolare), nella sua autentica testimonianza della legge mosaica, nella sua storia, nelle sue tradizioni e nel modello giudaico sacrificale.
Questo insolito senso dell’identità nazionale rendeva la nazione ebraica estremamente vulnerabile, tanto è vero che la disastrosa distruzione del 70 d.c., in un sol colpo sembrò annullare le speranze, il patrimonio spirituale e perfino la stessa memoria storica del popolo “prediletto da Dio”.
Eppure nemmeno questo fu sufficiente a debellare quell’ostinazione messianica che addirittura settant’anni dopo, nel 135 d.c., spinse il “figlio della stella” (Simon bar Kochba) ad impugnare le armi nell’ultimo disperato tentativo di riscatto, di fronte all’ennesima provocatoria profanazione della “città santa” ad opera dello storico ed odiato nemico romano.
Il popolo ebraico, in gran parte già cittadino del mondo, fu allontanato e si disperse del tutto.
Fu l’ultimo atto di un messianismo morente, una sconfitta bruciante e inappellabile, inaccettabile smentita di una promessa divina.
Soltanto allora, lontano dai condizionamenti di quel mondo, fece la sua comparsa l’embrione del “Figlio di Dio”.
A concepirlo fu lo stesso essenismo che, provenendo dalla visione mistico-ascetica del I secolo a.c., era divenuto nel secolo successivo il supporto ideologico di quel profetismo messianico di stampo insurrezionale che, a dire di Giuseppe Flavio, fu la causa della rovina nazionale.
Di fronte all’irreparabile sconfitta, con la complicità dell’ebraismo ellenistico, prese corpo la riscossa ideologica: quel mondo perdente, incredulo di fronte al fallimento di una profezia ineluttabile, guardandosi indietro volle credere (e fece credere) che le promessa vetero testamentaria era passata senza essere vista, che il Re di Israele era in realtà il Re del Mondo, che il Regno di Dio non era per la terra ma per il cielo e che il messia morto era risorto.
In realtà, grazie al felice riciclo, a risorgere sotto nuove spoglie non fu il messia ma il messianismo che, ora soltanto finalmente poteva chiamarsi cristianesimo!
Dall’unione di Gesù (Yeshua) e del Cristo (Giovanni) nacque Gesù Cristo, in tutto simile alle antiche divinità dei culti misterici e pagani, anche se a tradirne le origini erano il pensiero e la parola, entrambi espressione di pura spiritualità essena.
Il sincretismo tuttavia impose un caro prezzo e l’ideologia insurrezionale giudaica si trasformò in pacifismo universale di stampo antigiudaico, l’odio verso gli oppressori in perdono, la spada in ramoscello di ulivo.

Nacquero e si diffusero i canoni scritti, si svilupparono le comunità e tra i tanti “cristianesimi” emerse quello vincente, che noi tutti conosciamo come verità unica e immutabile, che uccise ogni diversa espressione di quel variegato universo mistico, presso il quale ancora sopravvivevano sparute scorie di una memoria storica disorientata e frammentaria ma pericolosa e nemica, perché sufficientemente critica e indisponibile allo stravolgimento o al rinnegamento.
Ma per un intero secolo, dagli anni della croce all’esplosione del nuovo fenomeno, cosa era successo?
Nell’ovvio vuoto di testimonianze del tempo, reperti, tracce o prove di qualsiasi specie sull’esistenza del cristianesimo nel I secolo, alla nascente Chiesa, per dimostrare l’indimostrabile, non restò che costruire la propria “letteratura di conferma” attraverso gli Atti degli Apostoli e le lettere paoline. Ma per fare questo dovette spalmare all’inverosimile, nel tempo e nello spazio, l’evangelizzazione di Paolo della quale dilatò gli effetti oltre ogni limite di ragionevole credibilità.
Lo scopo di una tale operazione fu quello di accreditare alla storia e a se stessa quella “soluzione di continuità”, finalizzata a coprire l’imbarazzante vuoto di eventi e dare fondamento alla pretestuosa successione apostolica sulla quale fondare il proprio primato.
In realtà il I secolo non conobbe il cristianesimo: non esiste una sola prova che possa essere considerata attendibile, alla quale ci si possa riferire per dimostrare il contrario.
La mancanza di testimonianze storiche estranee al mondo cristiano spinge spesso gli studiosi, talvolta anche laici, ad affidarsi alla cronologia espressa dalla fonti “sacre” (Atti degli Apostoli, epistole) per ricostruire le tappe di sviluppo del primo cristianesimo, con la conseguenza di accreditare la nascita del fenomeno cristiano alla storia di un secolo che non lo conobbe.
Tale impostazione, assolutamente estranea a qualsiasi metodologia scientificamente accettabile, porta infatti alla fuorviante lettura di una serie di eventi nell’ottica dello sviluppo della nuova fede, mentre essi sono ascrivibili, semmai, all’ostinato perdurare di quel “messianismo giudaico dell’attesa” non ancora rassegnato al fallimento o, in altri casi, al massimo rappresentano la prima embrionale espressione eterea e impalpabile di quel “messianismo dell’avvento” che, sulla spinta del pensiero ellenistico e superando il vincolo nazionalistico, riconosceva nell’idea incorporea di “logos” il vero segno dell’attesa manifestazione messianica.
Tali ultime forme primordiali, ben lontane dall’essere già cristianesimo, ne costituirono casomai il remoto antefatto ideologico e culturale e ne prefigurarono le caratteristiche distintive in termini di universalità e superamento del rigidismo vetero testamentario.
Ad esempio, il pensiero di Paolo di Tarso (per quanto di storico ci possa essere in tale personaggio e nelle sue missioni), se epurato dalle “scorie” apocrife dei fumosi, tardi e contraddittori riferimenti alla realtà corporea di Gesù Cristo alla sua morte e alla sua resurrezione, lascia intatta una testimonianza esattamente inquadrabile nelle suddette forme embrionali capaci di convogliare, grazie alla straordinaria suggestione mistica che le contraddistingueva, ampi e plebiscitari consensi che, dagli ambienti della diaspora, si sparsero in breve all’intero e variegato mondo pagano, in crisi di valori e di identità.

In tale ottica, dietro agli attriti tra la cosiddetta Chiesa di Gerusalemme e Paolo, che gli Atti degli Apostoli riducono a divergenze di vedute sulla circoncisione, l’osservanza dei precetti e l’apertura ai gentili, si nasconde un conflitto tra due mondi: da una parte l’eredità messianica in senso storicamente autentico e dall’altra la nuova visione volta al superamento del particolarismo nazionalistico, alla promozione ed alla condivisione con il mondo di una rivelazione messianica incorporea alla quale soltanto molti decenni dopo verranno dati volto, nome e vita.
Definire il residuo storico del giudaismo messianico del tardo I secolo come “giudeo cristianesimo” è un errore come lo è definire cristianesimo il tradimento delle aperture paoline: esso non fu altro che l’orgoglio della memoria storica ostinatamente opposta all’oblio dell’universalismo favorito, peraltro, dalla distruzione del tempio e di Gerusalemme.
Solo dopo la disfatta del 135 d.c., svanita definitivamente la chimera dell’attesa messianica, quel giudaismo intransigente si dovette rassegnare ad accettare lo scontro sul nuovo terreno del nascente cristianesimo, che ormai acquistava spessore e scolpiva il proprio idolo sulle pergamene dei Vangeli.
Divenuto solo allora “giudeo cristianesimo”, il messianismo nostalgico affidò la propria disperata difesa a piccole frange superstiti tra le quali la più dura a morire fu forse quella degli ebioniti … ma la favola aveva già rubato il posto alla storia e ogni resistenza fu inutile.
In due secoli il cristianesimo vincente ebbe la meglio sui “cristianesimi perdenti” (per quanto essi possano essere definiti “cristianesimi”) e lo stesso microcosmo della gnosi, espressione di spiritualità pura e autentica, originariamente patrimonio della cultura giudeo messianica, frantumandosi in un’infinità di visioni storicamente disorientate e talvolta distorte dalle esasperazioni escatologiche, decentrò progressivamente il proprio baricentro verso popoli e paesi d’oriente, generando nuovi germogli sempre più lontani dalla radice, per perdersi nelle avventure sincretistiche dell’elchasaismo, con i suoi riti purificatori, ed evolversi nell’anticosmismo dualistico del manicheismo (che ebbe una consistente diffusione sia ad oriente che ad occidente).
Quest’ultimo, che deve il suo nome al fondatore Mani, scivolò verso le suggestioni mistiche dei culti orientali (indiano, mazdiano, iraniano e addirittura buddista) con i quali coniugò ciò che restava dell’antica componente dualistica propria del pensiero gnostico.
Naturalmente, evoluzioni così lontane dall’originale testimonianza giudeo cristiana, non espressero più alcun potenziale di rivendicazione storica della vera vicenda messianica e, se nei territori dell’impero ebbero a che fare con l’ira degli eresiologi, fu soltanto perché costituirono comunque delle pericolose “devianze” dal canone prefissato dall’ortodossia romana, l’unica che vinse bollando ogni diversità come “eresia” e sterminandone ogni traccia.
Nel corso di questo studio, in più di un’occasione, abbiamo interpretato il silenzio degli storici sulla figura di Gesù di Nazareth come prova della sua inesistenza.
Identiche considerazioni, in queste pagine conclusive, possono essere appena accennate con riguardo alla presunta affermazione del cristianesimo nel corso del I secolo.
Escludendo, infatti, le fonti di parte e cioè le attestazioni delle epistole paoline, degli Atti e di tutto quanto possa essere ascritto al canone neotestamentario o alle presunte prime testimonianze extracanoniche di dubbia genuinità (la Didachè, la prima lettera di Clemente o quelle di Ignazio di Antiochia), cosa emerge dagli scritti del tempo a conferma dell’esistenza di un movimento cristiano nel I secolo o agli inizi del II?
Perché non esiste traccia di quella oceanica diffusione a macchia d’olio, avviata da Paolo di Tarso e così profusamente attestata nelle fonti di parte cristiana?
Possono essere forse ritenute conferme sufficienti il passo di Tacito sulle persecuzioni neroniane con tutte le sue evidenti interpolazioni, la riga dedicata da Svetonio all’espulsione dei giudei da Roma (che nemmeno gli Atti degli Apostoli ascrivono al movimento cristiano) o l’oscura e dubbia persecuzione di Domiziano che non ebbe a che fare con i cristiani ma fu mossa dall’ossessione dell’imperatore per le congiure (tanto è vero che colpì verosimilmente i soli appartenenti alla famiglia imperiale)?

Sono mai stati forse rinvenuti i resti di una vera chiesa cristiana o un solo reperto archeologico (un’epigrafe, una semplice incisione, un oggetto di culto) che possano confermare l’esistenza dei cristiani e la celebrazione nel I secolo di liturgie ispirate a Gesù Cristo?
Alla luce di quali obiettive risultanze si può asserire che i Vangeli canonici furono compilati nella seconda metà del I secolo?
Se escludiamo i nove caratteri del minuscolo e indecifrabile frammento di Qumran (7Q5), è mai stata trovata una sola traccia che possa autorizzare una datazione così remota e precisa da consentire addirittura una differenziazione cronologica tra i quattro canoni dal 50 al 100 d.c.?
Non è strano che tutte le testimonianze (non di parte) riguardanti l’esistenza del cristianesimo, nonché i più remoti frammenti dei Vangeli siano apparsi copiosamente a partire dalla metà del II secolo d.c.?
Perché, infine, ancora oggi non esiste uno studioso di parte cristiana che si ponga queste semplici domande prima di pubblicare libri, scrivere articoli o apparire nelle trasmissioni televisive per sostenere la storicità di Cristo e l’assenza di una soluzione di continuità con la nascita e la diffusione della cristianità?
L’augurio conclusivo è che questo nostro lavoro, sicuramente avversato dalla casta di coloro che consapevolmente mentono al mondo da secoli, possa, almeno nel suo piccolo, contribuire ad infondere coraggio a chi, pur intellettualmente onesto e preparato, non ha mai osato andare oltre il dubbio, nel timore di giungere a vedere con fin troppa chiarezza i contorni di una favola che oggi ancora in molti continuano a chiamare storia.
(Fonte: http://www.yeshua.it/)


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Commento di Giorgio Vitali: “L'errore fondamentale di queste posizioni, derivate dalla supervalutazione millenaria della bibbia, consiste nel dare importanza ad uno sparuto gruppo di persone, quali potevano essere gli abitanti della Palestina dell'epoca e ad una presunta religione che non significava nulla. Inutile entrare nel merito. I documenti ci sono. Confermati anche dalla ARCHEOLOGIA STORICA di questi ultimi decenni. Servirebbe però un minimo di INTELLIGENZA critica per capire la sostanziale differenza tra la grande cultura classica e questo presunto GIUDAISMO, non si sa bene da chi praticato, fermo restando che anche i Vangeli sono un MITO narrante la storia della penetrazione del NEOPLATONISMO in un ambiente che era già stato, e da tempo, ellenizzato."  

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